Gli idiofoni sono strumenti in cui primariamente un materiale solido con tensione propria viene messo in vibrazione. Svariati sono i mezzi con cui tale vibrazione è generata. Tali mezzi sono ad esempio:
1. due parti simmetriche sono percosse una contro l'altra; strumenti a percussione reciproca sono i piatti e le castagnette;
2. un corpo di legno, di metallo, persino di vetro o di porcellana è percosso con un battitore, un martello ecc.; strumenti del genere, a percussione diretta, sono il triangolo, lo xilofono, il metallofono, il gong, la campana;
3. un corpo solido è messo in vibrazione con un archetto oppure con le mani, eventualmente con altri mezzi; idiofoni a strofinamento sono il violino di ferro (Nagelgeige), in cui un archetto genera la vibrazione d'una serie di perni accordati, e la glasharmonika, in cui la vibrazione d'una serie di coppe di vetro viene generata dalle dita umettate.
La classificazione degli strumenti musicali, nell'introduzione a questo catalogo, è fatta a seconda della natura del materiale che viene messo in vibrazione primaria. Possono tuttavia essere prodotte anche vibrazioni secondarie che non servono però alla classificazione principale, ma possono tutt'al più servire per le suddivisioni. Un caso chiaro è il violino di ferro. In tale strumento vengono messi in vibrazione primariamente dei perni di metallo tramite un archetto. Queste vibrazioni si propagano prima alla cassa di legno, poi all'aria entro tale cassa, senza che lo strumento con questo divenga un aerofono.
Esistono anche altre maniere di generazione del suono in corpi solidi. Menzioniamo qui lo scuotimento o la percussione indiretta, ad esempio nel sonaglio, e il pizzico di linguette di metallo, come nello scacciapensieri e nel carillon. Strumenti di tali gruppi, però, non sono rappresentati in questa collezione.
I piatti sono idiofoni composti di due parti simmetriche che vengono percosse una contro l'altra. Generalmente sono d'ottone. La percussione reciproca genera una vibrazione soltanto nel bordo d'entrambe le parti simmetriche, mentre il centro resta immobile. I centri di ambedue le parti sono normalmente lavorati come gobbe con perforazioni per lasciar passare i lacci di cuoio con cui le due parti sono tenute dal suonatore.
Gli idiofoni a percussione diretta sono strumenti in cui un corpo di materiale solido, generalmente legno o metallo, è percosso con un battitore, un martello ecc. In questa collezione sono rappresentati due tipi di strumenti appartenenti a questo gruppo.
Un metallofono è composto di una serie di barre metalliche parallele, accordate ad una scala generalmente diatonica, e montate su due liste oppure su un telaio di legno. Un metallofono è suonato nella maggior parte dei casi con due martelletti. Lo si può paragonare al più conosciuto xilofono, in cui una serie di barre lignee parallele accordate viene suonata con martelletti.
Strumenti relativamente semplici come quello descritto sotto sono ormai giocattoli per bambini. Nella musica colta sono invece in uso metallofoni sia con risonatori (la marimba impiegata talvolta nella musica del nostro secolo) sia con una tastiera (carillon nell'oratorio "Saul" di Haendel, 1738; istromento d'acciaio nel "Flauto magico" di Mozart, 1791; Glockenspiel in varie opere dell'Ottocento, sino alla "Settima sinfonia" di Mahler, 1905) sia con risonatori e tastiera (celesta di Auguste Mustel, Parigi, brevettata nel 1886).
Le campane sono idiofoni generalmente di metallo in forma di calice rovesciato. A parte i sonagli da bestiame che sono forgiati, si può constatare che le campane, se sono di metallo, sono fuse normalmente in bronzo. Il corpo d'una campana è formato dalle seguenti parti:
- la corona, con cui la campana è appesa; ad essa si attaccano:
- la calotta, la parte trasversale in alto;
- il collo, la parte direttamente sotto la calotta;
- il fianco, la parte quasi cilindrica;
- la gonna, la parete inferiore del corpo con un allargamento accentuato dal '200 in poi.
All'interno del calice un batacchio metallico è attaccato alla calotta. Questo fa suonare soltanto l'orlo inferiore della campana, la gonna appunto, che ha sempre uno spessore più grosso dove il batacchio la percuote.
Il sonaglio da messa consta di un numero (generalmente tra tre e cinque) di piccole campane attaccate a un corpo metallico. Queste campane hanno forma emisferica, generalmente con otto denti al bordo.
Il violino di ferro è un idiofono a strofinamento. Un numero di perni di ferro o di acciaio ed eventualmente di ottone - che può variare da 9 a 66 - è disposto in una cassa di risonanza. I perni sono disposti a semicerchio, la cassa di risonanza può avere la forma di cerchio, tre quarti di cerchio, semicerchio o ellisse. La vibrazione dei perni è generata dal suonatore mediante un archetto.
Secondo una notizia pubblicata nel 1770 l'inventore fu il tedesco Johann Wilde, residente a Pietroburgo. Si può supporre che l'invenzione avvenisse negli anni 1740. Lo strumento in questa forma sparì nel corso della seconda metà dell'Ottocento.
Il nome tedesco (Nagelgeige = violino a chiodi) è più preciso di quello italiano.
Gli aerofoni sono strumenti in cui primariamente un flusso d'aria è messo in vibrazione periodica. Con poche eccezioni (ad esempio lo xiloaerofono in uso, tra l'altro, in Australia) l'aria messa in vibrazione si trova in un contenitore di materiale solido, e ugualmente con poche eccezioni (ad esempio ocarina, trottola) il contenitore ha la forma d'un tubo circondante la colonna d'aria. È possibile, nella pratica, identificare gli aerofoni con quelli che vengono chiamati "strumenti a fiato", a condizione che si intenda "fiato" in senso lato: gli organi e le loro varianti (ad esempio i regali) sono pure aerofoni, benché in tali strumenti il "fiato" provenga da mantici. Pochi strumenti a fiato non appartengono agli aerofoni: un esempio è il mirliton. Ad ogni modo gli aerofoni comprendono tutti gli strumenti "a fiato" in uso nella musica europea: flauti dolci e traversi, oboi, fagotti, clarinetti, saxofoni, corni, trombe, tromboni, tube, e inoltre gli organi e le loro varianti.
Il vano che contiene l'aria in un aerofono e che è dunque circondato da un materiale solido generalmente in forma di tubo si chiama cameratura. La vibrazione dell'aria nella cameratura può generarsi con vari metodi. L'impulso generante questa vibrazione consiste sempre in una perturbazione dell'aria, che a sua volta è un rapido alternarsi di compressione e rarefazione dell'aria.
1. La perturbazione può essere causata quando un flusso d'aria è diretto contro lo spigolo di un'apertura situata presso la parte iniziale della cameratura. A questo gruppo di strumenti appartengono tutti i flauti. Nel caso di flauti normali - nella musica europea soprattutto flauti dolci e traversi - il flusso d'aria proviene dai polmoni del suonatore. Anche le canne labiali negli organi, però, sono flauti in questo caso flauti dolci -, ma qui la corrente d'aria proviene da mantici.
2. La perturbazione può essere provocata dall'uso di un'ancia. Sono da distinguere le ance doppie e quelle semplici:
2.1. L'ancia doppia consiste in due linguette poste l'una di fronte all'altra, separate tra di loro da una piccola apertura di forma ellittica. Il suonatore tiene l'ancia doppia tra le labbra che chiudono l'apertura tra le linguette. Il suonatore poi costringe l'aria a entrare tra le ance, che si aprono e, dopo aver lasciato passare l'aria sotto pressione, si chiudono di nuovo, e così via. A questo gruppo di strumenti appartengono gli oboi, i fagotti, come pure un gran numero di strumenti usati nel '500 e nella prima metà del '600, e di strumenti ancora in uso nella musica popolare: i cialamelli, le dolzaine, i cromorni, i sordoni ecc.
2.2. L'ancia semplice può essere di due tipi, di cui trattiamo qui solo il tipo battente. L'ancia semplice battente viene applicata a un'apertura in un bocchino, contro cui le labbra del suonatore la premono. Succede poi un alternarsi di apertura e chiusura analogo a quello dell'ancia doppia. Ance semplici battenti sono usate nei clarinetti e nei saxofoni. Generalmente le ance doppie e quelle semplici battenti sono fatte di canna comune (Arundo donax). Anche gli organi possono contenere registri ad ancia semplice battente - i registri ad ancia -, ma le ance negli organi sono generalmente di metallo.
3. La perturbazione dell'aria può infine essere causata dalle labbra del suonatore, tese con una certa elasticità, per cui il flusso d'aria proveniente dai polmoni del suonatore è fatto entrare nella cameratura con impulsi periodici. Basta che le labbra del suonatore vengano premute contro l'estremità iniziale della cameratura, quindi senza bocchino. Normalmente gli strumenti appartenenti a questa categoria, però, sono suonati con un bocchino che dà supporto alle labbra e che dirige il flusso d'aria nella cameratura. La forma di tale bocchino può essere tra quella d'un bacino piatto e quella d'un imbuto profondo. Questo gruppo di strumenti comprende i corni in genere (corni da caccia e da orchestra, tube, cornetti, serpentoni ecc.) e le trombe in genere (trombe in senso stretto, tromboni ecc.).
Quando si genera una vibrazione dell'aria nella cameratura d'un aerofono, si forma in primo luogo un suono, la cui altezza dipende soprattutto dalle misure della cameratura. Nel caso più frequente d'una cameratura in forma di tubo, il suono dipende soprattutto dalla sua lunghezza.
L'altezza d'un suono corrisponde al numero delle vibrazioni al secondo: più alto è il numero di vibrazioni al secondo, più alto è il suono. Così, ad esempio, nella musica attuale il La3 corrisponde a 440 vibrazioni al secondo (a 20° C), il La2 a 220, il La1 a 110, il La0 a 55, il La4 a 880 il La5 a 1760; il Do3 corrisponde a 264 vibrazioni al secondo, il Do2 a 132, il Do1 a 66, il Do0 a 33, il Do4 a 528, il Do5 a 1056, il Do6 a 2112; il Do7 a 4224. Il numero di vibrazioni al secondo si designa normalmente con un'unità chiamata Hertz (abbreviazione Hz). I suoni più bassi in uso nella musica sono vicini al limite basso dell'udito umano. Il Sib0, suono più basso del controfagotto, ha circa 29Hz, il La-1 suono più basso della maggioranza dei pianoforti moderni, ha circa 27Hz, e sotto 16 vibrazioni al secondo l'orecchio umano non percepisce più un suono, bensì i singoli impulsi. Dall' altro canto, i toni più alti della musica si trovano lontano dal limite alto dell'udito umano, il quale d'altronde dipende dall'età dell'uditore. Una persona giovane può percepire suoni sino alle 20.000 vibrazioni al secondo, mentre il Do7, suono più alto del flauto piccolo, corrisponde a soli 4224 Hz. L'udito umano è più limitato di quello di certi animali. Ad esempio i delfini e i pipistrelli possono percepire suoni nella regione degli "ultrasuoni", cioè con più di 20.000 Hz. La lunghezza vibrante d'una colonna d'aria è proporzionalmente inversa al numero delle vibrazioni al secondo. Una colonna d'aria che corrisponde al Do3 (264 Hz) ha una lunghezza di circa 600 mm; una che corrisponde al Do4 (528 Hz) una di circa 300 mm. Che la lunghezza vibrante della colonna debba essere di "circa" e non di un numero esatto di mm, trova la sua spiegazione in una serie d'altri fattori che non possiamo trattare in questa sede. Inoltre, la lunghezza del tubo d'uno strumento non può quasi mai corrispondere esattamente alla lunghezza vibrante della colonna d'aria, e questo per varie ragioni. Facciamo qualche esempio.
Il flauto traverso inv. 2810 di questa collezione (scheda 27) ha come suono più basso Re3. Ora, questo suono di circa 293 Hz corrisponde alla lunghezza vibrante d'un tubo di circa 536 mm. In primo luogo si può però constatare che la lunghezza vibrante della colonna d'aria è calcolabile in circa 590 mm. Questo fenomeno si spiega col fatto che il corista di questo flauto è più basso di quello attuale. In secondo luogo, c'è una distanza tra l'estremità superiore del tubo, dove si trovano il tappo e il sughero, da una parte, e il foro d'imboccatura dall'altra. Così, la lunghezza totale dello strumento deve essere sempre maggiore della lunghezza vibrante della colonna d'aria contenuta in esso. Infatti, la lunghezza totale dello strumento è di 601,5 mm.
Prendiamo come secondo esempio l'oboe inv. 2812 di questa collezione (scheda 38). Lo strumento ha come suono più basso Do3, corrispondente a una lunghezza vibrante di circa 600 mm. La lunghezza del tubo di questo oboe, però, è di 547,8 mm. La differenza è spiegabile almeno con due fattori. In primo luogo, quando lo strumento viene suonato, è necessario aggiungere alla lunghezza del tubo la lunghezza del cannello per l'ancia e dell'ancia stessa. In secondo luogo, i due fori di risonanza nella campana dello strumento raccorciano la lunghezza vibrante della colonna d'aria.
Occorrono quindi ancora altri elementi oltre la lunghezza del tubo per determinare con precisione non solo la natura, ma anche il corista d'uno strumento. Comunque, è chiaro che il controfagotto deve avere un tubo più lungo di quello del fagotto, questo invece un tubo più lungo di quello d'un flauto traverso normale, e quest'ultimo un tubo più lungo di quello d'un flauto (traverso) piccolo.
Un tubo ha dunque un fondamentale corrispondente in buona parte alla lunghezza del tubo. S'intende che generalmente è possibile produrre anche altri suoni. In primo luogo si producono con imboccature speciali, oltre il fondamentale, le serie degli armonici. Supponiamo che il fondamentale sia Do1. In questo caso la serie degli armonici comprende pure le note seguenti: Do2 - Sol2 - Do3 - Mi3 - Sol3 - Sib3 (un poco basso) - Do4 - Re4 - Mi4 - Fa#4 (un poco basso) - Sol4 - Lab4 (un poco alto) - Sib4 (un poco basso) - Si4 - Do5. Il numero degli armonici realizzabili dipende dalla proporzione tra il diametro e la lunghezza del tubo. Così, nei corni da caccia corti con un diametro tra O, 7 e 5% della lunghezza al punto più stretto è possibile realizzare il fondamentale e tutt'al più ancora il secondo armonico. Dall'altro canto, coi corni e con le trombe sofisticate - corni con un diametro tra 0,15 e 0,3% della lunghezza al punto più stretto, e tra 0,2 e 0,6% della lunghezza all'inizio dell'iperbole del padiglione; trombe con un diametro tra O, 45 e 0,55% (dall'Ottocento in poi sino al 0,7%) della lunghezza nella parte cilindrica del tubo - è possibile produrre gli armonici sino alla sedicesima, e addirittura di più. Infatti, coi corni e con le trombe "naturali" si possono suonare solo gli armonici; con una tecnica speciale dell'imboccatura il suonatore può anche "correggere" i suoni troppo bassi e troppo alti; cosi, il Sib3 troppo basso può diventare La3 o Sib3; il Fa#4 troppo basso, Fa4 oppure Fa#4. In questa maniera, da Sol3 a Do5 una scala cromatica è a disposizione del suonatore d'un corno o d'una tromba "naturale" e del compositore per tale strumento.
Anche coi flauti e con gli strumenti ad ancia si usano gli armonici, benché solo in numero più ristretto, dato che il diametro del tubo raggiunge una percentuale più alta della lunghezza (ad esempio nei flauti traversi barocchi normalmente tra 2 e 4%). Così, con un flauto traverso, con la diteggiatura Re3 è possibile produrre anche Re4, La4 e Re5.
Nella maggior parte dei casi (flauti, oboi, fagotti, saxofoni) gli armonici sono disposti come è indicato sopra. S'incontra un'eccezione nei clarinetti, cioè negli strumenti ad ancia con cameratura cilindrica, o maggiormente cilindrica. Qui sono possibili solo gli armonici dispari. Il suono più basso d'un clarinetto in Sib è normalmente Re2; il prossimo armonico con questa diteggiatura non è Re3, ma La3; il seguente Fa#4. Nei flauti e negli strumenti ad ancia con cameratura conica l'intervallo tra i primi due armonici è dunque di un'ottava, mentre negli strumenti ad ancia con cameratura totalmente o maggiormente cilindrica (soprattutto i clarinetti) questo intervallo è d'una duodecima. Questo rende la diteggiatura dei clarinetti alquanto più complicata di quella degli altri strumenti a fiato in legno.
Gli armonici sono quindi importanti per aumentare il numero delle note suonabili. Ma hanno anche un'altra importanza, e questo vale non solo per gli aerofoni, ma per gli strumenti in generale. Gli armonici accompagnano anche i suoni più bassi: nella musica, salvo che in quella elettronica, non esistono suoni assolutamente senza armonici. Questi ultimi allora determinano il timbro dello strumento. Tra gli aerofoni il suono alquanto ottuso dei flauti è determinato dalla scarsità (non dall'assenza!) di armonici; quello tagliente degli strumenti ad ancia doppia e quello squillante delle trombe dalla ricchezza degli armonici alti; quello equilibrato e "rotondo" dei corni da orchestra dall'equilibrio tra gli armonici bassi e quelli alti; quello un poco "vuoto" dei clarinetti dalla presenza esclusiva degli armonici dispari.
Per rendere possibili anche altri suoni che si trovano tra gli armonici vengono applicati vari meccanismi. Certi strumenti della famiglia delle trombe (soprattutto i tromboni) hanno una coulisse, una parte che raddoppia il tubo e che può essere spinta via da chi suona. Così il tubo è allungato e il suono quindi abbassato. Con sei o sette "posizioni" della coulisse è possibile abbassare ciascuno degli armonici d'un semitono, d'un tono, d'una terza minore, d'una terza maggiore, d'una quarta ed eventualmente d'un tritono.
Un altro meccanismo consiste nei cilindri che dal 1813 in poi vengono applicati con sempre maggior frequenza ai corni e alle trombe normali, a volte anche ai tromboni. Questi ultimi sono dunque "a tiro" (cioè a coulisse) oppure a cilindri. Quando è azionato un cilindro, il tubo è generalmente allungato con l'aggiunta d'un pezzo di tubatura, e il suono (l'armonico) è quindi abbassato.
I flauti e gli strumenti ad ancia hanno quasi sempre fori per le dita. Con tutti i fori chiusi si fa sentire il fondamentale. Quando si apre un foro, l'aria scappa a un punto più alto dell'uscita del tubo, la colonna d'aria vibrante è raccorciata e il suono è rialzato. In molti casi tali strumenti hanno sei fori per le dita (indicati come I, II, III, IV, V, VI). Un flauto traverso rinascimentale o barocco e un oboe barocco hanno - a prescindere dai fori d'estensione - sei fori, con cui è possibile suonare in Re maggiore: Re3 (fondamentale) - Mi3- Fa3 - Sol3 - La3 - Si3 - Do#4. Con l'aiuto degli armonici l'ambito può essere ampliato verso gli acuti. Per i suoni cromatici (ad esempio Fa3, Sol#3, Sib3, Do4) esistono diteggiature speciali. In primo luogo è possibile chiudere un foro a metà. Si produce Sol quando si chiudono i fori I-III; quando si chiudono i fori I e II, e poi III a metà, suona Sol#. Molti oboi, per facilitare la chiusura a metà, hanno il foro III raddoppiato sin entro l'Ottocento. Per chiudere il foro III a metà, basta chiudere uno dei due fori. In secondo luogo vengono applicate le diteggiature a forchetta. Quando si chiudono i fori I e II, suona La3; quando si chiudono i fori I, III, IV e V, lasciando aperto il foro II, suona Sib3. Faceva parte della tecnica del suonatore correggere con l'imboccatura le discordanze dell'intonazione così create. Per facilitare la produzione delle note cromatiche, vengono applicate chiavi chiuse tra i fori dalla seconda metà del '700 in poi.
Certi strumenti hanno chiavi d'estensione, generalmente chiavi aperte per estendere l'ambito verso i bassi. Un flauto traverso normale nel '600 e nel '700, e qualche volta ancora nel secolo seguente, ha Re3 come fondamentale. Già prima del 1732 sono però conosciuti flauti traversi con un'estensione sino a Do3. In questo caso il tubo deve essere allungato e una chiave aperta per Do3 aggiunta. Nel corso del '700 l'estensione sino a Do3 diventa sempre più frequente, e viene anche aggiunta una chiave aperta per Do#3. Queste due chiavi diventano obbligatorie nell'Ottocento, quando si costruiscono anche flauti traversi con un'estensione maggiore, sino a Si2 o addirittura Sol2. Tutti gli oboi barocchi hanno la chiave aperta per Do3.
Ci sono ancora altre complicazioni nella diteggiatura. In certi casi s'incontrano un foro per il pollice (p) e uno per il mignolo (m). La diteggiatura del clarinetto è, come s'è già detto, alquanto più complicata, e ancora più complicata è quella del fagotto, perché questo strumento ha un'estensione notevole verso i bassi: con la chiusura dei fori I-VI si ottiene Sol1 ma l'ambito si estende prima sino a Do1, poi a Sib0, in certi casi persino a La0. Di questi casi speciali parleremo nelle introduzioni agli strumenti relativi.
I suonatori di strumenti con fori per le dita - flauti, strumenti ad ancia, cornetti, serpentoni - sino alla seconda metà del '700 non sempre applicavano le mani come attualmente, cioè con la mano sinistra sopra e con quella destra sotto, ma era usata anche la posizione inversa: la mano destra sopra, quella sinistra sotto. Per rendere possibili le due posizioni delle mani erano necessari alcuni accorgimenti. Una difficoltà nasce nel caso del foro per il mignolo in strumenti fatti in un solo pezzo, cioè nella maggior parte degli strumenti con fori per le dita del '500 e della prima metà del '600. Il mignolo è il dito più corto. In strumenti di formato piccolo - ad esempio a volte in flauti dolci soprani il foro per il mignolo, anche trovandosi nell'asse centrale dello strumento, è raggiungibile per entrambi i mignoli. In strumenti di formato medio il foro per il mignolo, per essere raggiungibile, deve essere spostato verso sinistra o verso destra. Dato che gli strumenti venivano però suonati con la mano destra oppure con quella sinistra sotto, era necessario provvedere tali strumenti di due fori per il mignolo, uno spostato a destra, l'altro a sinistra. In tal caso il foro non usato veniva tappato con cera. In uno strumento di formato grande il foro per il mignolo sarebbe irraggiungibile per entrambi i mignoli; in tal caso lo strumento è provvisto d'una chiave aperta.
Sono i flauti, gli strumenti ad ancia e, tra i corni, i vari cornetti, i serpentoni e gli strumenti derivati da questi ultimi ad essere provvisti di fori per le dita o eventualmente di chiavi. Generalmente fori e/o chiavi non erano applicati agli altri corni e alle trombe, perché danneggiano il timbro di tali strumenti. Alla fine del '700 e nella prima metà del secolo seguente tuttavia furono fatti esperimenti con l'applicazione di chiavi anche a certi corni e a certe trombe. In questa collezione v'è una tromba con chiavi.
l flauti e gli strumenti ad ancia del Medioevo hanno un tubo sempre - o quasi - fatto in un solo pezzo. Lo stesso principio è applicato nel '500 e nella prima metà del '600, benché altri strumenti d'un formato alquanto grande possano in questo periodo anche essere composti di due o persino tre pezzi. In tali casi un pezzo è prolungato da un tenone, l'altro contiene una mortasa corrispondente al tenone. S'intende che il tubo intorno alla mortasa è più sottile e dunque più debole. Per evitare che il tubo si spacchi all'altezza della mortasa, questa è rafforzata a volte con una ghiera di metallo.
Dalla metà del '600 flauti e strumenti ad ancia sono normalmente composti di tre, quattro o anche più pezzi, sempre congegnati con tenoni e mortase. Discutendo i singoli tipi indicheremo sempre dove si trovano i tenoni, dove le mortase. Le mortase possono essere rinforzate con ghiere di metallo anche in questo periodo - tali ghiere s'incontrano soprattutto nei fagotti - ma generalmente esse sono provviste di rinforzi in forma di rigonfiamento del tubo. La composizione d'un tubo in tre parti con rigonfiamenti intorno alle mortase è nota già verso il 1620, dato che il Praetorius (1619) raffigura un tipo di strumento ad ancia doppia, il bassanello, costruito in tale maniera. Questa struttura fu però estesa a tutti i tipi solo negli anni 1660 in Francia.
Strumenti traspositori sono gli strumenti in cui il suono non corrisponde alla diteggiatura. Così, in un clarinetto in Sib il suono più basso è prodotto con la diteggiatura di Mi2, ma suona Re2. Nella stessa maniera il Fa2 suona Mib2, il Sol2 suona Fa2, e via dicendo. Ogni tanto s'incontrano strumenti traspositori tra i cordofoni (il violino piccolo; il contrabbasso che suona all'ottava bassa) ma la maggior parte degli strumenti traspositori s'incontra tra gli aerofoni. Per questa ragione li trattiamo in questa sede.
La trasposizione d'un tale strumento si indica col suono che è prodotto con la diteggiatura di Do. In uno strumento in Sib il Do suona quindi come Sib; lo strumento è traspositore d'una seconda maggiore più bassa (in alcuni casi d'una settima minore più alta). In uno in La il Do suona come La; lo strumento è quindi traspositore d'una terza minore più bassa (in alcuni casi d'una sesta maggiore più alta). In uno in Lab il Do suona come Lab; lo strumento traspone d'una terza maggiore più bassa (in alcuni casi d'una sesta minore più alta). In uno in Sol il Do suona come Sol; lo strumento traspone d'una quarta più bassa (in alcuni casi d'una quinta più alta). In uno in Fa il Do suona come Fa; lo strumento traspone d'una quinta più bassa (in alcuni casi d'una quarta più alta). In uno in Mib il Do suona come Mib; lo strumento traspone d'una terza minore più alta (in alcuni casi d'una sesta maggiore più bassa).
Gli strumenti traspositori più frequenti sono:
- flauti traversi d'amore in La o in Lab;
- flauti traversi contralti in Sol;
- flauti militari in Mib, in Reb, o anche in altre tonalità con bemolli;
- oboi tenori in Fa o in Sol;
- oboi da caccia e corni inglesi in Fa;
- clarinetti in Mib, in Sib o in La;
- clarinetti d'amore in Lab, in Sol o in Fa;
- corni e trombe in varie tonalità.
I tromboni non sono mai traspositori; i serpentoni sono traspositori (in Sib) solo in Francia.
Il principio della trasposizione è applicato soprattutto perché sia possibile suonare in un ambito diverso da quello dello strumento normale. Un oboe normale sino al 1800 non poteva suonare sotto il Do3. Per rendere possibile un ambito sino a Fa2 nei bassi, si metteva a disposizione del suonatore un oboe tenore in Fa. In questo caso il suonatore applicava la diteggiatura d'un oboe normale, ma le note diteggiate suonavano d'una quinta più bassa. Così, un oboista può suonare anche un oboe tenore, un oboe da caccia o un corno inglese senza dover imparare diteggiature diverse. In tali casi la trasposizione viene dunque incontro ai suonatori.
Il principio della trasposizione è applicato anche perché certi strumenti traspositori hanno un timbro speciale. Ad esempio, un clarinetto in La ha un timbro molto dolce, uno in Sib un timbro alquanto più chiaro, uno in Do (dunque non traspositore) un timbro un poco volgare, uno in Mib un timbro squillante.
La parte per uno strumento traspositore è notata con le diteggiature da assumere, ed è quindi anche traspositore. Questo rende la lettura d'uno spartito con strumenti traspositori assai difficile. Il lettore d'uno spartito per orchestra sinfonica che contiene un flauto d'amore in La, un corno inglese in Fa, clarinetti in Sib, corni in Fa e trombe in Sib deve trasporre le parti per tali strumenti tutte in maniere diverse, ancora a prescindere dalle varie chiavi di Do, in cui le viole, i violoncelli e i tromboni possono essere notati. Uno spartito per banda, in cui sono usati quasi esclusivamente degli strumenti traspositori, risulta ancora più difficile. Per quanto la trasposizione faciliti il compito dei suonatori, essa rende difficile quello del direttore d'orchestra o della banda.
Non sono da confondere la trasposizione col fondamentale. Il fondamentale d'un cornetto normale è generalmente La2, senza trasposizione. Altrettanto senza trasposizione sono i fondamentali Fa3 del flauto dolce barocco, Re3 del flauto traverso normale senza chiavi d'estensione, Mi2 del clarinetto in Do (non traspositore), Sib0 del fagotto normale. Tali strumenti sono su Fa3, Re3, Mi2, Sib0. Strumenti traspositori sono invece in una determinata tonalità (si vedano sopra gli esempi). S'intende che sono possibili anche combinazioni di fondamentale e tonalità di trasposizione. Un flauto d'amore senza chiavi d'estensione è su Re3 in La o Lab (cioè il fondamentale Re3 suona come d'una terza minore o maggiore più basso, quindi come Si2 o Sib2). Un oboe tenore, da caccia o un corno inglese possono essere su Do in Fa (cioè: il fondamentale Do3 suona come Fa3). Un clarinetto in Sib è generalmente su Mi2 in Sib (cioè: il Mi2 suona come Re2).
I flauti sono aerofoni in cui il flusso d'aria è diretto contro lo spigolo di un'apertura situata nella parte iniziale del tubo. Esistono nel mondo numerose specie di flauti. In Europa sono da distinguere principalmente - laddove si prescinde da certi flauti di natura etnica o popolare - due tipi: i flauti dolci e quelli traversi.
I flauti dolci hanno un tubo nel cui inizio è inserito un blocco (l'anima) sì che resta libero un canale d'aria tra la superficie superiore del blocco e la parete del tubo. Sotto il canale d'aria si trova nel tubo un'apertura (bocca), il cui orlo inferiore è smussato a spigolo di sopra. L'aria proveniente dal canale d'aria è diretta contro questo labium (labbro) smussato.
Il flauto dolce fu introdotto nell'Europa occidentale nel secolo XI. Proviene in parte dai paesi arabi tramite la penisola iberica - il tipo è ormai obsoleto nella regione di cultura islamica -, in parte da paesi di popolazione slava, dove sino ad oggi i flauti in genere e i flauti dolci in specie rivestono una parte importante nella musica etnica.
Il flauto dolce subì uno sviluppo speciale nell'Europa occidentale. La prima tappa di questa evoluzione si constata nel '500 e nella prima metà del '600. Gli strumenti costruiti in questo periodo appartengono a un tipo cosiddetto rinascimentale. La seconda tappa è situata tra il 1650 e la seconda metà del '700. Gli strumenti costruiti in questo secondo periodo appartengono a un tipo che chiamiamo qui barocco. Dato che è impossibile sfumare la dinamica nel suono del flauto dolce, il tipo principale sparì dalla musica europea nell'epoca dei primi inizi del romanticismo, quindi nella seconda metà del '700.
Rimasero in uso solo certe varianti del flauto dolce nella musica etnica o popolare. Menzioniamo qui il flauto a una mano, generalmente con tre fori per le dita, ancora in uso in Provenza (galoubet), nelle province basche e nella cobla in Catalogna; i vari tipi di flagioletti in uso sino all'Ottocento; i flauti d'accordo soprattutto nella Baviera Superiore.
In italiano per questo tipo di strumento si usa l'espressione flauto dolce, che non corrisponde sempre alla realtà poiché il timbro dello strumento non è sempre molto dolce. Si usa anche l'espressione flauto a becco, una traduzione dal francese che qui evitiamo, perché solo i flauti dolci alti hanno un ingresso del tubo in forma di becco d'uccello. L'unico termine corretto sarebbe "flauto a blocco" (ted. Blockflöte), eventualmente "flauto ad anima" (ted. Kern(spalt)flöte), ma questi termini sono inusitati in italiano.
Ricordiamo che i registri labiali dell'organo sono composti di canne che hanno la stessa costruzione dei flauti dolci e appartengono pure a questa categoria di strumenti. S'intende che nell'organo l'aria non proviene dai polmoni del suonatore, ma da mantici. Dato che in questa collezione non figurano organi, non trattiamo in questa sede le caratteristiche delle canne labiali dell'organo.
L'ocarina è un flauto globulare. Tali strumenti in origine non hanno l'imboccatura del flauto dolce, e sono allora varianti del semplice flauto verticale, di cui non parliamo in questa sede. È possibile applicare l'imboccatura del flauto dolce a un flauto globulare a condizione che quest'ultimo sia di terracotta o eventualmente di porcellana. Tali flauti globulari di terracotta o di porcellana con l'imboccatura del flauto dolce possono opportunamente essere inseriti nella categoria dei flauti dolci, alla quale appartiene dunque anche l'ocarina.
I flauti dolci del '500 e della prima metà del '600 hanno normalmente un tubo ricavato da un unico pezzo di legno, escluse la capsula e la fontanella. Quando il costruttore non aveva a disposizione un pezzo di legno abbastanza grande per ricavarne uno strumento intero, i bassi e i contrabbassi potevano essere composti di due o addirittura tre pezzi, ma allora le divisioni tra i pezzi si trovano intorno alla chiave per il mignolo (si veda sotto) e/o all'inizio del piede. Queste divisioni differiscono da quelle dei flauti dolci del tipo barocco.
La cameratura è generalmente conica inversa, ma può allargarsi nella prima e nell'ultima parte del tubo. Ci sono sempre sei fori davanti (I-VI) e un foro - quello più alto - sul retro per il pollice (p). Sotto i sei fori anteriori c'è un settimo foro, a cui torniamo.
Il fenomeno che si evidenzia in questo periodo è che tutti gli strumenti musicali - anche i flauti dolci - sono costruiti in varie misure con fondamentali che variano dall'alto in basso, che poi formano una famiglia. All'inizio del '500 sono noti tre membri della famiglia dei flauti dolci, all'inizio del '600 si sale per lo meno a sette. Semplificando un poco, si può constatare che nel 1619 Michael Praetorius, a prescindere dal gar klein Plockflötlein (flauto dolce piccolissimo) uno strumemo identico al galoubet francese, cita i membri seguenti: Exilent (sopranino) con fondamentale Sol4 Diskant (soprano) con fondamentale Do4 o Re4 Alt (contralto) con fondamentale Sol3 Tenor (tenore) con fondamentale Do3 Bassett (bassetto) con fondamentale Fa2 Bass (basso) con fondamentale Sib1 Grossbass (contrabbasso) con fondamentale Fa1
Le misure variano tra poco più di 20 cm (sopranino) e poco meno di 200 cm (contrabbasso).
Nei membri più piccoli della famiglia - sopranini, soprani, contralti e a volte tenori - l'ingresso del tubo ha la forma d'un becco di uccello. I contrabbassi, bassi, bassetti e a volte i tenori hanno un ingresso con un taglio trasversale piano, coperto da una capsula (cappelletto) in forma di tronco di cono. Nei tenori e nei bassetti questa ha un'apertura rettangolare laterale, mentre nei bassi e contrabbassi più lunghi la capsula ha un'apertura rotonda in cima, dove entra un esse di ottone.
Come s'è già detto, sotto i sei fori anteriori (I-VI) c'è un settimo foro per il mignolo (m). Questo dito, essendo più corto degli altri, non raggiungerebbe il foro nei tenori, contralti e a volte anche nei soprani, se il foro si trovasse al centro in linea coi fori I-VI. Per questa ragione il foro per il mignolo viene spostato verso la destra o la sinistra del tubo. Come s'è già spiegato, sino alla seconda metà del '700 i musicisti non suonavano sempre - come oggi - con la mano sinistra sopra e quella destra sotto, ma talvolta anche in posizione inversa. Perciò, era necessario provvedere un foro per il mignolo destro e uno per quello sinistro. Infatti, i flauti dolci tenori, contralti e a volte anche quelli soprani hanno due fori per il mignolo, uno a destra e uno a sinistra. Il foro che non era usato veniva tappato con cera.
I bassetti, i bassi e i contrabbassi erano troppo grandi perché il mignolo potesse raggiungere il foro m. Questi membri della famiglia avevano una chiave aperta, nella maggior parte dei casi in ottone, che si chiude quando il mignolo preme la paletta. A volte tale strumento ha anche più chiavi aperte. Il piattino della chiave è rotondo e piatto, con una guarnizione di cuoio cucita al piattino. Perché la paletta sia alla portata del mignolo destro come di quello sinistro, è in forma di farfalla (a coda di rondine). Il piattino e la leva hanno un asse sostenuto in due occhielli (uno da entrambi i lati), fissati nel tubo. La molla di ottone è fissata nel legno del tubo mediante un chiodo o una vite, con l'estremità situata sopra la leva, la cui parte inferiore è premuta dalla molla in modo che un'estremità della leva stia vicina al tubo il più possibile, e l'altra estremità con la paletta a farfalla stia lontana dal tubo il più possibile. La chiave chiude un foro che, nelle descrizioni che seguono, sarà designato come ch.
Al di sopra della chiave si trova una fontanella (capsula protettrice), generalmente dello stesso legno del tubo, perforata con fori a rosoncino, con una ghiera di ottone alle due estremità.
La maggior parte dei flauti dolci del tipo rinascimentale ha un corista, allora in uso nella musica da camera, alquanto più alto di quello odierno. Il corista si trova generalmente tra La3 = 450 Hz (circa un sesto di tono sopra il corista odierno) e La3 = 468 Hz (approssimativamente un semitono sopra il corista attuale).
Purtroppo i quattro strumenti di questa categoria conservati nel Museo Civico di Bologna hanno subito gravi cambiamenti. Il 1815 (scheda 15), a parte un catastrofico intervento probabilmente ottocentesco, è stato barocchizzato verosimilmente nel '700, quindi in un periodo in cui lo strumento veniva ancora suonato. In occasione del restauro degli elementi cambiati sono in maggior parte stati lasciati com'erano per documentare il mutamento di uno strumento da rinascimentale in barocco, mutamento d'altronde assai raro. Il 1768 (sceda 14) fu cambiato probabilmente nell'Ottocento per renderlo simile al precedente (scheda 13). I cambiamenti furono fatti in una maniera così poco professionale che nel restauro si ritenne opportuno riportare lo strumento al suo stato originale, cioè rinascimentale, dal momento che esisteva ancora la capsula originale. Gli strumenti inv. 1830 e 1839 (schede 16 e 13) sono stati guastati - probabilmente nell'Ottocento - con l'aggiunta d'un piede separato con quattro chiavi. Questi strumenti sono così stati rovinati, e per questa ragione non furono restaurati.
Dobbiamo accennare al fatto che degli strumenti del Museo Civico finora non sono state fatte radiografie, sicché non è sempre possibile in questa sede dare dettagli precisi sulla costruzione della cameratura o sul sottotaglio dei fori per le dita.
A Parigi, nel corso degli anni '70 del Seicento un membro o vari membri della famiglia Hotteterre cambiarono la costruzione probabilmente della maggior parte degli strumenti a fiato in legno, di sicuro quella dei flauti dolci, di quelli traversi, degli oboi e anche quella d'un tipo di cornamusa tipicamente francese, la musette. I membri della famiglia Hotteterre che possono essere presi in considerazione per questa riforma sono Jean I (morto tra il 1690 e il 1692), suo figlio Martin (morto nel 1712), Nicolas (morto nel 1693) e i figli di questi Nicolas "l'aîné" (circa 1637-1694) e Louis (morto nel 1716).
I flauti dolci del nuovo tipo hanno una cameratura maggiormente conica rovescia. Sono generalmente composti di tre pezzi: la testata, il corpo col foro p e con sei fori anteriori (I-VI), e il piede col foro m. Il corpo ha tenoni ad entrambe le estremità; all'estremità inferiore della testata e in quella superiore del piede si trovano le mortase corrispondenti. Per rinforzare le mortase l'estremità inferiore della testata e quella superiore del piede hanno a volte ghiere di metallo, ma generalmente torniture a rigonfiamento, mentre anche intorno all'ingresso e all'uscita ci sono rigonfiamenti modanati. I rigonfiamenti in questi punti sono spesso ornati con anelli, frequentemente di avorio, se il tubo è di legno. (Flauti dolci col tubo di avorio sono piuttosto rari.).
Abbiamo già visto che la costruzione d'uno strumento a fiato di legno in tre pezzi era già nota verso il 1620. La generalizzazione di questo principio e la sua applicazione a quasi tutti gli strumenti a fiato in legno si deve però ai costruttori francesi sopra elencati.
Il nuovo tipo di flauto dolce fu introdotto prima in Italia, dove Bartolomeo Bismantova descrive, a Ferrara, un flauto dolce del nuovo tipo già nel 1677 (Compendio musicale); poi in Germania, dove Johann Christoph Denner e Johann Schell, entrambi a Norimberga, furono i primi a costruire strumenti del nuovo tipo dal 1684 in poi (cfr. inv. 1769, scheda 17); infine in Inghilterra, dove fu introdotto da Jacques Hotteterre nel 1675.
La costruzione in tre pezzi ha due vantaggi. In primo luogo è così possibile accordare lo strumento entro certi limiti. In secondo luogo il piede è girevole, sicché è possibile girare il foro m verso il mignolo destro o quello sinistro, di modo che è possibile rinunciare ai fori doppi.
Nell'epoca barocca il numero dei membri della famiglia dei flauti dolci si restringe alquanto. In uso comune ci sono quattro membri, la cui nomenclatura dell'epoca è svariata, ma che nell'uso odierno sono così designati: soprano con fondamentale Do4 contralto con fondamentale Fa3 tenore con fondamentale Do3 basso con fondamentale Fa2.
Sono quindi ormai spariti i membri estremi della famiglia, sia negli acuti sia nei bassi. Esistono anche membri intermedi che hanno però un'importanza locale. Il membro intermedio più importante è la flûte de voix (voice flute) con fondamentale Re3, conosciuto soltanto in Francia, quindi in Inghilterra.
L'ingresso di tutti i flauti dolci, tranne il basso, ha la forma di becco d'uccello. Il basso ha una capsula bulbiforme o in forma di calotta e un esse di ottone.
Raramente nei tenori e sempre nei bassi il foro m ha una chiave aperta per il mignolo che in certi casi ha ancora la paletta a farfalla, la quale però non è strettamente necessaria perché, come s'è già detto, il piede con la chiave è girevole; perciò la paletta può anche avere la forma d'una ghianda o essere ovale. Il piattino della chiave può avere sagome diverse, ma è sempre piatto con una guarnizione di cuoio incollata. Gli assi della leva e del piattino hanno il supporto nel rigonfiamento all'estremità superiore del piede. La molla d'ottone è generalmente fissata nel legno del tubo e poggia liberamente contro la paletta. Soltanto in strumenti tardivi la molla è saldata o ribadita alla paletta e poggia liberamente sul legno del tubo. Non c'è fontanella. In assenza di radiografie non è sempre possibile dare informazioni precise sulla costruzione della cameratura o sul sottotaglio dei fori per le dita.
I vari tipi di flagioletto sono varianti del flauto dolce. Anch'essi hanno un blocco di legno all'ingresso che lascia libero un canale in cui l'aria è diretta contro lo spigolo del labium.
Il tipo di flagioletto più antico è quello francese, descritto per la prima volta dal Mersenne nel 1636, ma di origine molto precedente, forse cinquecentesca. La cameratura del flagioletto francese è in principio cilindrica. Lo strumento ha quattro fori davanti (I-IV) e due fori per il pollice sul retro (p I e p II). Il foro p I si trova al di sopra del foro I, p II tra i fori III e IV. Sono possibili due diteggiature. Con la prima il pollice della mano che sta in alto può chiudere il foro p I, l'indice e il medio della mano in alto possono chiudere i fori I e II; il pollice della mano tenuta in basso può chiudere il foro p II, l'indice e il medio della mano in basso possono chiudere i fori III e IV. Con la seconda diteggiatura il pollice della mano in alto può chiudere il foro p I, l'indice, il medio e l'anulare della mano in alto possono chiudere i fori I, II e III; il pollice della mano in basso può chiudere il foro p II e l'indice il foro IV. Il tono più basso è generalmente Re, in certi casi anche Sol o Do.
Questo tipo ha la sua origine appunto in Francia, ma è conosciuto anche in Germania, soprattutto a Norimberga, già nel 1643; in Inghilterra a metà del '600; e in Italia, dove Bartolomeo Bismantova a Ferrara lo menziona per la prima volta nel 1677. I flagioletti francesi sono sempre fatti in un unico pezzo, e continuano a essere suonati sino alla seconda metà del '700.
Verso la fine del '700 e nel secolo seguente si costruivano flagioletti anche più complicati e fatti di vari pezzi che però non sono presenti in questa collezione.
I flauti d'accordo sono flauti dolci doppi con due camerature parallele, entrambe con un blocco di legno all'ingresso che lascia libero un canale in cui l'aria è diretta contro lo spigolo del labium.
Con tali strumenti è possibile suonare in terze parallele. Si può ottenere questo effetto in due modi diversi, uno consistente nella disposizione delle bocche e dei labium alla stessa altezza, ma quella dei fori nei due tubi ad altezze diverse. Questo è il sistema applicato nei flauti d'accordo francesi del '700, chiamati appunto flûtes d'accord.
L'altro modo consiste nella disposizione delle bocche e dei labium ad altezze diverse, e in quella dei fori nei due tubi alla stessa altezza, o quasi. Quest'ultimo è il sistema usato nei flauti doppi fatti soprattutto a Berchtesgaden nel '700 e nel secolo seguente, specialmente dalla famiglia Walch. Il flauto d'accordo descritto sotto appartiene a quest'ultima categoria.
2.1.1.5. L'armonia di flauti (il flauto polifonico)
Il corista è uno strumento che produce un suono o vari suoni, con cui è possibile accordare un altro strumento. Il corista più conosciuto è il diapason, un idiofono biforcato. Per accordare gli organi si usa generalmente un corista a fiato, una variante del flauto dolce che dà un suono o vari suoni che servono da base all'accordatura d'un organo.
Il flauto globulare normalmente non appartiene al gruppo dei flauti dolci, ma è generalmente una zucca, una noce di cocco o un altro frutto con un foro d'imboccatura rotondo lavorato a spigolo, contro il quale il suonatore soffia direttamente l'aria. Strumenti del genere spesso non hanno fori per le dita, ma a volte ne possono avere sino a tre. Talvolta il corpo del flauto può essere fatto d'un materiale più sofisticato, ad esempio nel caso della trottola, che è proprio un flauto globulare, naturalmente senza fori per le dita. L'applicazione dell'imboccatura del flauto dolce con canale d'aria che conduce l'aria proveniente dai polmoni del suonatore contro il bordo lavorato a spigolo nella parete del flauto globulare, dunque contro un labium, è possibile solo quando il flauto globulare è fatto di terracotta, eventualmente di porcellana. Semplici flauti globulari di terracotta con l'imboccatura del flauto dolce, a volte con un numero di fori per le dita che va sino a sei, sono usati ancora oggi in Guatemala, Costarica, Panama, Colombia e Perù (in Guatemala e Perù tali strumenti venivano fatti già nell'epoca precolombiana), poi - spesso in forme umanoidi o zoomorfe, eventualmente con uno o due fori per le dita - in certi paesi dell'Europa orientale (Polonia, Romania).
Che in questi paraggi ci sia pure una produzione di flauti globulari di terracotta in forme umanoidi con l'applicazione dell'imboccatura del flauto dolce, ed eventualmente con uno o due fori per le dita, traspare dalla descrizione d'un tale strumento in Appendice II di questo catalogo.
Intorno al 1860 Giuseppe Donati di Budrio inventò l'ocarina, un flauto globulare in forma d'uovo o di carota, di terracotta, con l'imboccatura del flauto dolce e con dieci fori per le dita. Tali strumenti furono poi fatti in alcuni paesi dell'Europa orientale, quindi di porcellana a Meissen in Sassonia.
I flauti traversi sono flauti che il suonatore tiene in posizione più o meno orizzontale, quindi trasversale rispetto al suo corpo. Il foro d'imboccatura è laterale e ha uno spigolo aguzzo, contro cui il suonatore dirige direttamente il fiato.
Sino alla metà del secolo XVII il corpo del flauto ha sei fori laterali per le dita. Per quanto sia possibile accertare, la cameratura in questo periodo è più o meno cilindrica. Sino al secolo XVI il flauto è normalmente costruito in un solo pezzo. Tra l'ingresso del tubo e il foro d'imboccatura dei flauti traversi è sempre inserito un sughero spostabile che garantisce l'intonazione giusta dei suoni.
Il flauto traverso, come tipo, proviene anch'esso dall'oriente e penetrò in Europa attraverso l'impero bizantino, l'Ungheria, la Boemia, poi la Germania, da dove fu introdotto più tardi nei paesi del meridione e dell'occidente. La prima menzione del flauto traverso in Germania è del secolo XII (Herrad von Landsberg, Hortus Deliciarum). Fuori della Germania lo strumento mantiene sino al secolo XVIII il nome di flauto alemano, flûte allemande, German flute, ecc.
Come s'è già osservato riguardo ai flauti dolci, anche i flauti traversi del '500 e della prima metà del '600, sempre conservando la cameratura più o meno cilindrica, i sei fori per le dita e il sughero, sono costruiti in varie misure con fondamentali diversi, quindi come una famiglia che, però, non ha tanti membri come quella dei flauti dolci. Vengono costruiti flauti traversi in tre misure: soprano fondamentale La3 tenore fondamentale Re3 basso fondamentale Sol2.
I soprani sono sempre fatti in un solo pezzo; i tenori lo sono spesso, benché s'incontrino anche tenori in due pezzi (inv. 3288 e 1833, schede 24 e 25); i bassi sono generalmente in due pezzi (inv. 3289, scheda 26). Negli strumenti in due pezzi il tenone è sempre un prolungamento della testata; nel corpo si trova allora la mortasa corrispondente. In tal caso la testata ha il foro d'imboccatura, il corpo ha invece i sei fori per le dita. Negli strumenti in due pezzi l'ingresso e l'estremità superiore del corpo intorno alla mortasa portano ghiere o rinforzi in forma di avvolgimenti. In certi casi tali rinforzi si trovano anche intorno all'uscita.
Il marchio si trova normalmente tra l'ingresso e il foro d'imboccatura.
Generalmente i flauti traversi rinascimentali hanno un corista basso. Il corista può essere circa un tono sotto il corista attuale (La3 = 403 Hz; inv. 3288), in Francia eventualmente una terza minore sotto il corista a cui siamo abituati (La3 = 367 Hz; inv. 1833). Flauti traversi di questo periodo con un corista più alto (inv. 3289) sono piuttosto eccezionali.
La costruzione dei flauti traversi, come quella dei flauti dolci, subì cambiamenti essenziali in Francia con l'attività di un membro o di vari membri della famiglia Hotteterre negli anni '70 del Seicento.
I flauti traversi del nuovo tipo hanno una testata più o meno cilindrica, e il resto della cameratura conico rovescio, a volte con l'eccezione del piede, che può essere cilindrico oppure allargarsi verso l'uscita formando così un trombino.
I primi flauti traversi del nuovo tipo costruiti in Francia sono composti di tre pezzi: la testata col foro d'imboccatura, il corpo con sei fori per le dita e il piede con la chiave, su cui torneremo. In questo caso la disposizione dei tenoni è come nei flauti dolci barocchi: un tenone si trova ad entrambe le estremità del corpo, mentre all'estremità inferiore della testata e all'estremità superiore del piede ci sono le mortase corrispondenti.
Intorno al 1720 il corpo fu diviso in due pezzi: un pezzo superiore con i fori I-III, e uno inferiore con i fori IV-VI. La maggior parte dei flauti costruiti nel secolo XVIII, e ancora un buon numero del secolo XIX, soprattutto nella prima metà, è composto di quattro pezzi: testata, pezzo superiore, pezzo inferiore e piede. In quest'ultimo caso ci sono tenoni alle due estremità del pezzo superiore e all'estremità inferiore del pezzo inferiore; le mortase corrispondenti si trovano all'estremità inferiore della testata e alle estremità superiori del pezzo inferiore e del piede.
Per rinforzare il tubo intorno alle mortase erano applicate a volte delle ghiere metalliche, ma generalmente - forse anche per l'influsso dell'estetica barocca - il tubo era tornito in questi punti a rigonfiamento. Tali rigonfiamenti sono forti sino alla metà del secolo XVIII, dopo di che - forse anche con l'influsso del classicismo - diventano più deboli. Questi rigonfiamenti, come pure l'ingresso e l'uscita del tubo, possono essere ornati con anelli di materiale animale (avorio, corno), mentre nel secolo XIX sono usate sempre più frequentemente ghiere metalliche, almeno quando il tubo è di legno. (Flauti traversi d'avorio - come flauti dolci di questo materiale - sono piuttosto rari.)
Anche nei flauti traversi di questo tipo un sughero spostabile si trova tra l'ingresso del tubo e il foro d'imboccatura, per regolare l'intonazione.
Il flauto traverso di questo tipo ha sempre un tappo nell'ingresso del tubo. Questo può avere varie forme. Quella più semplice è un coperchio sopra un tenone all'estremità superiore della testata. Un'altra forma è quella d'un coperchio con un turacciolo centrale entrante nell'ingresso del tubo. Queste due forme s'incontrano sino al 1750. Dopo questa data diventa sempre più comune il tappo con turacciolo con un perno filettato che entra nel sughero. Con quest'ultima forma di tappo è possibile spostare il sughero tirando o spingendo il tappo.
Dopo la metà del secolo XVII spariscono il soprano e il basso dei flauti traversi rinascimentali. L'ex tenore rinascimentale diventa il flauto traverso "normale" del barocco, dunque lo strumento con fondamentale Re3. Sino ad oggi il flauto su Re, eventualmente con chiavi d'estensione, è lo strumento standard.
Dal secolo XVIII s'incominciò a costruire anche flauti traversi più grandi (con fondamentali più bassi) e più piccoli (con fondamentali più alti). Questi membri d'una nuova famiglia differiscono essenzialmente dai membri grande e piccolo della famiglia dei flauti traversi rinascimentali. I "nuovi" flauti traversi bassi e alti costruiti dal secolo XVIII seguono in principio lo sviluppo dei flauti traversi "normali", benché i perfezionamenti tecnici di questi ultimi fossero a volte applicati ai flauti grandi e piccoli un poco in ritardo rispetto ai flauti "normali".
Un problema grave rimane quello del corista. Abbiamo visto che nel periodo rinascimentale esso poteva presentare differenze enormi, e che specie in Francia il corista era generalmente assai più basso che altrove. Anche nello stesso luogo geografico erano possibili vari coristi secondo l'ambiente (chiesa, corte). È vero che nel periodo di cui stiamo parlando le differenze vanno riducendosi, ma sino al 1859 non c'è unità di corista.
La costruzione dei flauti traversi - e anche di altri tipi di strumenti - in tre o quattro pezzi, come s'è già detto, ha il vantaggio che essi possono, entro certi limiti piuttosto stretti, essere accordati e quindi adattati al cambiamento di corista. Per aumentare le possibilità d'adattamento a vari coristi, nella seconda metà del secolo XVIII e nella prima del XIX erano costruiti flauti con un numero di pezzi superiori di ricambio di varie lunghezze, generalmente tre, a volte sino a sette.
Ma qui si presenta una difficoltà. È chiaro che coi vari pezzi di ricambio le proporzioni delle distanze tra il foro d'imboccatura e i fori per le dita da un lato, e di quella tra il foro d'imboccatura e l'uscita dall'altro, cambiano, sicché sorgono errori d'intonazione tra i suoni. Fino a un certo punto queste discordanze potevano essere corrette con la tecnica del suonatore. Per realizzare una correzione più efficace, certi flauti con pezzi di ricambio hanno il cosiddetto registro (si veda inv. 1826, scheda 28), applicato per la prima volta intorno al 1750. Il registro è un frammento del tubo all'estremità inferiore del piede, staccato dal piede stesso. Il frammento in questione ha un tenone all'estremità superiore, a cui corrisponde una mortasa all'estremità inferiore del piede. Il registro col tenone è rivestito da un tubo metallico; il piede è prolungato con tale tubo; il tubo metallico del piede può scivolare in quello del registro. Così è possibile, tirando fuori il registro, allungare il piede. Il tenone del registro ha spesso una gradazione con numeri.
Un'altra possibilità di adattamento ai vari coristi consiste nel cosiddetto barilotto, un pezzo di tubo staccato dalla testata e generalmente tornito a rigonfiamento, ciò che spiega il nome. La costruzione col barilotto è conosciuta già intorno al 1750, ma è applicata raramente nel secolo XVIII, mentre diviene abbastanza comune nel XIX. Un flauto traverso col barilotto consta dunque di cinque pezzi: testata, barilotto, pezzo superiore, pezzo inferiore e piede.
La costruzione del barilotto assomiglia a quella del registro. Il barilotto può avere un tenone all'estremità superiore, a cui corrisponde una mortasa all'estremità inferiore della testata. Il barilotto è generalmente rivestito con un tubo metallico, che copre all'interno l'eventuale tenone o, se non c'è tenone, che sporge semplicemente dall'estremità superiore. Ci sono casi in cui, anche se il barilotto è rivestito, la testata non lo è, ma generalmente la testata ha un tubo metallico sporgente all'estremità inferiore. Il tenone o la parte sporgente del tubo del barilotto scivola nella testata, oppure sopra la parte sporgente del tubo della testata. Tirando o spingendo il barilotto, è possibile cambiare la lunghezza del tubo e così il fondamentale. Il tenone del barilotto o, in assenza di questo, il tubo metallico sporgente, può avere una gradazione con numeri.
Il rivestimento metallico della testata nel caso più favorevole si estende soltanto per la parte inferiore di questa. Nel caso più sfavorevole esso copre l'interno della testata intera. Nel corso degli anni il legno della testata si restringe, mentre il rivestimento metallico non si comporta in questa maniera, e il legno del tubo si spacca. Infatti, un gran numero di flauti del secolo XIX con una testata rivestita interamente di metallo ha spacchi nel tubo ligneo della testata, spacchi tanto più deleteri se attraversano il foro d'imboccatura.
Il flauto traverso ad ogni modo ha sei fori per le dita già presenti nel flauto rinascimentale. Aprendo i fori uno dopo l'altro si produce la scala di Re maggiore, tramite la produzione di armonici estendentesi per un ambito tra due ottave e mezza e tre ottave. I suoni cromatici, come s'è già detto, sono realizzati tramite chiusura parziale dei fori e tramite diteggiature a forchetta. Faceva parte della tecnica del suonatore correggere con l'imboccatura gli errori d'intonazione sorgenti con tali diteggiature.
Anche così manca però nel flauto traverso una diteggiatura per Mib3 (o Re#3). Per rendere possibile questo suono, veniva aggiunta una chiave chiusa per il mignolo destro sul piede. (Questa chiave si usa anche per Mib e Re# della quarta e quinta ottava, e per correggere l'intonazione di certi altri suoni.) Così, un flauto traverso tra il 1650 e il 1775 ha sempre questa chiave chiusa, e ancora un certo numero di flauti traversi del secolo XIX non ha più di questa unica chiave.
Nell'ultimo quarto del secolo XVIII, però, furono aggiunte altre chiavi chiuse per facilitare la produzione dei suoni cromatici:
Fa3: chiave traversa per l'anulare destro, col piattino a destra oppure a sinistra; talvolta con una leva lunga ausiliare per il mignolo sinistro, nel qual caso il piattino si trova sempre a sinistra; certi flauti hanno due chiavi per Fa3, una col piattino a destra per l'anulare destro, una col piattino a sinistra per il mignolo sinistro;
Sol#3: normalmente per il mignolo sinistro; a volte con una leva ausiliare o persino con una seconda chiave per il pollice sinistro;
Sib3: normalmente per il pollice sinistro; talvolta con una leva lunga ausiliare per l'indice destro; certi flauti hanno due chiavi per questo suono, una per il pollice sinistro, una per l'indice destro.
Dagli anni 1780 fu applicata a volte una chiave per Do4 per l'indice destro con una leva lunga.
Nella prima metà del secolo XIX furono aggiunte ancora altre chiavi chiuse:
Re4: indice destro. Senza questa chiave il Re4 si produce chiudendo tutti i fori e suonando l'armonico di Re3. Il Do#4 si produce con tutti i fori aperti. Così era estremamente difficile, se non impossibile, far sentire il trillo Do#3-Re4. Per rendere possibile questo trillo venne aggiunta la chiave per Re4;
Mi4 (o Fa4): indice destro; con questa chiave la produzione di certi armonici è facilitata.
In certi casi flauti più antichi furono adattati alle esigenze "moderne": così, ad esempio, a un flauto che in origine aveva solo la chiave Mib potevano essere aggiunte chiavi ulteriori. A tale proposito si veda inv. 1836 (scheda 35).
Venivano aggiunte anche chiavi d'un altro tipo: chiavi aperte che servono per estendere l'ambito del flauto verso i bassi. S'intende che in tal caso il tubo - generalmente il piede - deve essere allungato. Già nel 1732 (Majer, Museum Musicum) è conosciuta una chiave aperta per il mignolo destro per rendere possibile il Do3. Nell'ultimo quarto del secolo XVIII questa chiave, insieme con una chiave aperta per Do#3, anche per il mignolo destro, diventa sempre più comune. Queste due chiavi risultano spesso indispensabili già nell'ultimo quarto del secolo XVIII (ad esempio, Mozart fa iniziare l'ambito del flauto con Do3), e sono presenti ancora nel flauto odierno.
Nel secolo XIX l'estensione verso i bassi di alcuni flauti è ampliata con una chiave aperta per il Si2 per il mignolo sinistro. Certi compositori hanno usato anche questa nota nelle loro composizioni. Nondimeno la chiave Si2 non è stata generalmente accettata, e tale suono in composizioni del XIX secolo deve essere trasposto all'ottava superiore con la maggior parte dei flauti odierni senza una chiave Si2.
Johann Ziegler a Vienna (nato nel 1816) e Franz Schöllnast a Bratislava ampliarono l'ambito del flauto verso i bassi aggiungendo chiavi aperte per Sib2 e La2, (si veda inv. 1816, scheda 25) addirittura per Sol#2 e Sol2, per allineare il flauto traverso al violino. Tali chiavi d'estensione, che risulta difficile maneggiare, non furono generalmente applicate.
Tali chiavi d'estensione hanno in parte leve lunghe, perché sono maneggiate con la mano sinistra. Le leve lunghe attraversano la giuntura tra il pezzo inferiore e il piede, e in tal caso le leve lunghe devono essere composte di due pezzi. Per evitare questa giuntura nelle leve, i flauti con chiavi d'estensione verso i bassi sotto Si2 hanno a volte un unico pezzo dall'estremità inferiore del pezzo superiore sino all'uscita. Chiamiamo questo pezzo lungo, che incorpora dunque il piede, pezzo inferiore. In tali flauti la cameratura è sempre conica rovescia sino all'uscita, dunque senza porzione cilindrica o trombino.
Abbiamo visto che in molti casi un numero notevole di chiavi è maneggiato con lo stesso dito, per esempio Do3, Do#3 e Mib3. Per tale ragione è quasi impossibile ad esempio la transizione da Do a Do#, essendo queste chiavi maneggiate entrambe col mignolo destro. Per facilitare tale transizione, sono spesso applicati alle palette di certe chiavi del secolo XIX e XX cilindri girevoli.
Prescindiamo in questa introduzione dal trattare lo sviluppo tecnico dei dettagli delle chiavi (forme e modi d'attacco dei piattini, delle leve e delle palette; guarnizioni; supporti; molle). Tali dettagli sono menzionati nelle descrizioni dei singoli strumenti.
Nel 1832 e nel 1847, quindi in due tappe, Theobald Böhm a Monaco di Baviera sviluppò il flauto traverso moderno. Il flauto Böhm venne adottato prima in Francia, in Inghilterra, e in Italia, poi molto più tardi anche nei paesi di lingua tedesca. Dato che in questa collezione non sono rappresentati i flauti Böhm né originali, né in varianti francesi, inglesi o italiane, rimandiamo il lettore che voglia informarsi in proposito a opere specializzate.
Intorno al 1720 iniziò la formazione d'una nuova "famiglia" di flauti traversi: furono costruiti strumenti con tubi più lunghi e con fondamentali più bassi in confronto ai flauti "normali", e anche strumenti più corti con fondamentali più alti. La differenza essenziale tra i flauti piccoli e grandi del Rinascimento e tali flauti nel periodo qui considerato, è che gli ultimi sono tutti strumenti traspositori. In altre parole: la diteggiatura e la notazione di tali strumenti corrispondono a quelle del flauto traverso "normale", ma il suono è differente. Così è possibile che un suonatore di flauto "normale" possa maneggiare anche i flauti grandi e piccoli senza studio speciale.
In questo capitolo ci occupiamo dei flauti più grandi, quindi più bassi del flauto traverso "normale". Sono da distinguere per lo meno tre tipi di flauti grandi:
1. flauti d'amore, strumenti traspositori in La oppure in Lab, quindi traspositori di una terza minore o maggiore più bassa. L'espressione "d'amore" fu adottata inizialmente per gli oboi. All'inizio del secolo XVIII, come vedremo, fu ideato un oboe traspositore in La, chiamato oboe d'amore. Passerebbe i limiti di questo catalogo riassumere le speculazioni sopra l'etimologia di questo termine. Sta di fatto che l'espressione "d'amore" venne applicata anche ai flauti traspositori d'una terza più bassa. I primi flauti d'amore nacquero intorno al 1720. Il tipo sparì dalla prassi musicale dopo il 1850;
2. flauti contralti, generalmente in Sol, quindi traspositori di una quarta più bassa, a volte in Fa, dunque traspositori di una quinta più bassa. Anche il flauto contralto nacque nel '700. Lo strumento è prescritto ancora nel nostro secolo in alcune opere per orchestra sinfonica;
3. flauti bassi all'ottava inferiore dei flauti "normali". I flauti bassi non sono rappresentati in questa collezione.
Intorno al 1730 iniziò in Francia la produzione di flauti piccoli all'ottava superiore dei flauti "normali". Vent'anni più tardi lo strumento si diffuse anche in altri paesi. Inizialmente fu prescritto solo nell'orchestra dell'opera, ma dall'inizio dell'Ottocento fu introdotto anche nell'orchestra sinfonica, di cui fa parte ancora oggi. Si tratta d'uno strumento traspositore all'ottava superiore.
Abbiamo già accennato al fatto che gli strumenti da banda sono quasi tutti traspositori, generalmente in Mib e Sib, ad ogni modo in tonalità con bemolli. Per l'uso della banda sono costruiti soprattutto i flauti seguenti:
in Reb (traspositore d'un semitono)
in Mib (traspositore d'una terza minore)
in Lab (traspositore d'una sesta minore)
in Sib (traspositore d'una settima minore)
in Reb alto (traspositore d'una nona minore)
in Mib alto (traspositore d'una decima minore)
Il 1837 è in Mib, il 1812A in Reb alto, il 1812B in Mib alto (schede 34, 36, 37).
Per questi strumenti la vecchia nomenclatura è un poco differente. Non vi era indicato il suono della diteggiatura Do, bensì il fondamentale. Il fondamentale d'un flauto normale senza chiavi d'estensione è Re. Con un flauto in Mib questo Re suona come Fa. Quindi, secondo la vecchia nomenclatura il flauto in Mib era chiamato flauto in Fa. Questo spiega il marchio "F" sul 1812B.
Sono da distinguere due tipi di strumenti ad ancia doppia, entrambi in origine sempre con un tubo diritto. Il primo tipo ha la cameratura cilindrica. A questo tipo appartengono l'aulòs dell'antichità greca, la tibia di quella romana; tale strumento è raffigurato anche nell'arte etrusca, ma il nome etrusco è sconosciuto. Tali strumenti venivano suonati sempre raddoppiati (un unico suonatore suonava due strumenti). L'ancia era spesso doppia, ma a volte era applicata un'ancia semplice battente. Questo tipo ha la sua origine nel bacino orientale del Mediterraneo, essendo usato anche dagli Egizi e dai Fenici. Tali strumenti, benché ormai senza raddoppiamento, sono usati nel Caucaso, in Cina (kuantzu) e in Giappone (hiciriki). A prescindere dal Caucaso, questo tipo è ormai estinto in Europa.
Il secondo tipo di strumento ad ancia doppia ha la cameratura conica. Il tubo è di legno, ma la campana può essere metallica. Era già noto nel Medio Oriente nei primi secoli dell'era volgare e fu poi diffuso dagli Arabi. Così raggiunse verso est la Persia (zurnâ), l'India, il Tibet, la Cina, la Mongolia, la Birmania, i paesi dell'Asia sudorientale, e diverse isole dell'Indonesia (Giava, Madura, Bali, Lombok, Celebes); e verso ovest la regione della penisola balcanica, e la regione maghrebina, da dove si diffuse verso il sud sino agli Haussa e i Peul.
Lo strumento fu introdotto nell'Europa occidentale dagli Arabi attraverso la Sicilia e il continente italiano: vi è attestato nell'iconografia già nel secolo XII. Dall'Italia si diffuse verso il Nord, e ancora nel secolo XIV veniva chiamato in Germania walsch rôr (tubo romanico, o italiano). Tali cialamelli, come s'è già detto, potevano avere nel Medioevo italiano grandi campane metalliche, ma in genere avevano - e hanno ancora - campane lignee. Questo vale ancora per il successore dello strumento medievale nella musica popolare italiana: il piffero, generalmente suonato insieme con la zampogna.
Dalla fine del secolo XV sino alla metà del secolo XVII gli strumenti ad ancia doppia ebbero uno sviluppo senza pari. In primo luogo vennero ideate molte varianti, in parte in Italia (bassanelli, sordoni, doppioni, dolzaine), in parte al nord delle Alpi (fagotti, cortaldi, cialamelli con cappelletto, cromorni, schryari). Le differenze tra queste varianti consistono in vari elementi: la conicità (o il grado di conicità) o cilindricità della cameratura; la sua eventuale piegatura (sordoni, doppioni. fagotti, cortaldi), e l'uso d'un cappelletto (cialamelli a cappelletto, doppioni, dolzaine, cromorni, schryari) o meno.
In secondo luogo, quasi ognuna di queste varianti fu estesa a formare una famiglia con un numero di membri tra tre (bassanelli, schryari) e sei. I cialamelli normali e i fagotti si svilupparono sino a formare famiglie con sei formati e sei fondamentali diversi.
Questa predilezione per le ance doppie e per il timbro stridente prodotto da esse scomparve quasi di colpo intorno alla metà del secolo XVII. Strumenti ad ancia doppia con un cappelletto hanno lo svantaggio che con essi è impossibile produrre armonici, sicché l'ambito rimane sempre ristretto, generalmente a una nona. Scomparvero intorno al 1650, dunque, tutti i tipi di strumenti con cappelletto. Scomparvero anche molti tipi di strumenti ad ancia doppia senza cappelletto, benché qualcuno (specie il cortaldo) rimanesse in uso, però con cambiamenti di forma e di tecnica, sino all'inizio del '700. Di tutta la ricchezza rinascimentale rimasero solo il cialamello soprano su Re2 o Do3, e il "fagotto corista" o fagotto basso su Do1. Entrambi questi strumenti hanno una cameratura conica e vengono suonati senza cappelletto. Intorno al 1650 l'ambito del cialamello soprano era d'una duodecima (ottava e quinta), mentre il "fagotto corista" si estendeva per due ottave e mezza (decimanona). In linea di principio il cialamello e il "fagotto corista" sono ricavati - come i flauti dolci e traversi e tutti gli altri strumenti ad ancia doppia con l'eccezione del bassanello - da un unico pezzo di legno. Tra cialamello e "fagotto corista" ci sono tre differenze principali. In primo luogo, benché entrambi gli strumenti abbiano una cameratura conica, la conicità è ben più spiccata nel cialamello, che ha inoltre una campana con un forte allargamento. In secondo luogo, il cialamello ha sempre un tubo diritto, mentre il tubo del fagotto ha una piegatura: dall'esse il tubo procede verso il basso, poi in fondo alla culatta si svolge in su sino al foro d'uscita che si trova ben più in alto dell'esse. In terzo luogo, l'ambito del fagotto ha un'estensione notevole verso i bassi. Semplificando un poco, si può dire che il cialamello soprano produce con la copertura dei fori I-VI il Re3, e che ha poi un foro per il mignolo o una chiave aperta d'estensione, pure per il mignolo, per Do3. Il "fagotto corista" invece produce con la copertura dei fori I-VI il Sol1, mentre ha fori e chiavi d'estensione, con cui viene raggiunto verso i bassi il Do1.
Un fenomeno speciale nel fagotto rinascimentale è che a volte il foro d'uscita è coperto da una graticola di legno o di metallo per addolcire il suono. Tutto sommato, tale graticola non s'incontra più dopo il 1700. Un'eccezione, però, è l'oboe tenore 2813/2814 (scheda 42) sempre della collezione di questa collezione che la possiede ancora.
La costruzione dei cialamelli, come quella dei flauti, subì cambiamenti radicali in Francia con l'attività d'un membro o di vari membri della famiglia Hotteterre negli anni '70 del Seicento. Lo strumento che ne risultò è chiamato oboe. Che questo strumento fosse ideato in Francia, spiega anche l'etimologia del nome. Lo strumento, fatto normalmente in legno, aveva allora - e ha ancora, benché in misura decrescente nel corso dei secoli - un timbro stridente, alto e venne chiamato hautbois, legno alto, nel senso di una sonorità penetrante. Ora, nel francese del '600 il dittongo oi era pronunciato non, come oggi, uà, ma oè, il che spiega la traslitterazione italiana oboè. Più tardi, in Italia l'accento fu spostato e il nome divenne òboe.
Già nel 1666 un Giovanni della Rue di nazionalità francese suonava l'oboe all'Accademia Filarmonica di Bologna, e Bartolomeo Bismantova di Ferrara scrisse la sua Regola generale per suonare l'oboè nel 1688-89.
L'oboe ha un tubo normalmente diritto, una cameratura conica ed è composto di tre pezzi: il pezzo superiore con l'ingresso e con i fori I-III, un pezzo inferiore con i fori IV-VI e le tre o due chiavi, su cui torneremo più avanti, e la campana con un allargamento forte della cameratura, e, prima dell'applicazione della chiave Si2, con due fori di risonanza opposti. Negli oboi, sino ai primi decenni del secolo XIX, il bordo della campana ha un risalto verso l'interno, sicché la cameratura raggiunge il punto più largo al di sopra dell'uscita, e poi si restringe leggermente.
Ci sono tenoni alle estremità inferiori del pezzo superiore e di quello inferiore; le mortase corrispondenti si trovano alle estremità superiori del pezzo inferiore e della campana. S'intende che anche qui le mortase sono i punti più deboli nella costruzione. Per rafforzare il tubo intorno alle mortase, venivano applicate a volte delle ghiere metalliche, ma generalmente il tubo era tornito a rigonfiamento in questi punti.
Il cialamello, essendo fatto normalmente in un unico pezzo, non aveva tali punti deboli alle giunture, ma un punto debole c'era anche qui: l'ingresso, dove viene inserito il cannello con l'ancia doppia. Nel cialamello l'ingresso è sempre rinforzato con l'espansione del tubo in forma di vaso. Anche l'ingresso dell'oboe deve avere un rinforzo all'ingresso. A volte si applicava qui una ghiera, ma generalmente nei secoli XVII e XVIII c'è un rinforzo tornito dal legno del tubo intorno all'ingresso. Spesso si seguono (dall'ingresso in giù): una parte esternamente cilindrica con uno o due anelli, un rigonfiamento, un anello. Certi costruttori olandesi alquanto conservatori (Richard Haka, Coenraet Rijkel, Abraham van Aardenburg, Jan Steenbergen, Hendrik e Frederik Richters) ritengono il vaso del cialamello al di sopra del rigonfiamento dell'oboe, ma questo è un fenomeno locale. Solo in Inghilterra (Kusder, T. Collier) si costruiscono oboi senza rinforzo dell'ingresso, e quasi senza rigonfiamenti alle estremità superiori del pezzo inferiore e della campana.
Tali rigonfiamenti sono forti sino alla metà del secolo XVIII, dopo di che diventano sempre più deboli. Verso la fine del '700 e all'inizio del seguente in Italia, Andrea Fornari (1753-1841) a Venezia assunse l'ingresso con rinforzo in forma di vaso del cialamello, ed è interessante notare che egli modellava anche i rinforzi alle estremità superiori del pezzo inferiore e della campana in forma di vaso. Con ogni probabilità, si fa sentire qui l'estetica del classicismo che tendeva a evitare troppe curve. Nella prima metà del secolo XIX i rigonfiamenti vanno scomparendo, e gli oboi dal 1850 hanno solo un rinforzo molto leggero in forma di vaso intorno all'ingresso.
I rigonfiamenti alle estremità superiori dei tre pezzi, come pure l'uscita del tubo, possono essere ornati con montature di materiale animale (avorio, corno), mentre nel secolo XIX vengono usate con sempre maggior frequenza ghiere metalliche, almeno quando il tubo è di legno. (Gli oboi d'avorio sono ancora più rari dei flauti di questo materiale.) Il punto più stretto della cameratura si trova subito dopo l'ingresso. Al di sopra di questo punto più stretto l'ingresso è alquanto allargato per procurare posto per il cannello - generalmente di ottone - con l'ancia doppia.
L'oboe è, come s'è già detto, un ammodernamento del cialamello soprano. Con la nascita dell'oboe spariscono - con l'eccezione della Germania e dei Paesi Bassi - gli altri membri della famiglia dei cialamelli. Solo in Germania e nei Paesi Bassi si suonano ancora nella seconda metà del secolo XVII cialamelli leggermente modificati in tre formati. Già nell'ultimo decennio del secolo XVII, però, sono ideati anche oboi più grandi, che hanno quindi fondamentali più bassi. Questi oboi speciali, di cui parleremo nei capitoli seguenti, dimostrano alcune differenze tecniche con gli oboi normali, ma ne seguono in linea di principio lo sviluppo, benché i perfezionamenti tecnici fossero a volte applicati agli oboi grandi un poco "in ritardo" in confronto agli oboi normali.
Anche qui, il corista, a volte differente da città in città, tra chiesa e corte, presenta problemi. Per aumentare le possibilità di adattamento a vari coristi, nella seconda metà del secolo XVIII e nella prima del XIX erano costruiti oboi con pezzi superiori di ricambio di varie lunghezze. Il numero dei pezzi di ricambio può variare tra due e quattro.
L'oboe ha sei fori per le dita. Aprendo i fori uno dopo l'altro si produce la scala di Re maggiore, tramite la produzione degli armonici estendentesi per un ambito di due ottave. Nel secolo XIX e con l'oboe moderno si raggiunge negli acuti ancora una terza o persino una quinta di più. I suoni cromatici, come s'è già detto, sono realizzati tramite chiusura parziale dei fori e tramite diteggiature a forcella.
L'oboe, sino alla prima metà del secolo XIX, presenta qualche facilitazione per la chiusura parziale. Con i fori I-III chiusi, si producono Sol3 e Sol4; con I e II chiusi, suonano La3 e La4. Sol#3 e Sol#4 si producono con la chiusura parziale del foro III. Per facilitare questa, il foro III è a volte duplicato: chiudendo i due fori III il suonatore realizza Sol, chiudendo solo uno dei fori III invece Sol#.
Un altro problema è quello del Fa e Fa#. In linea di principio si producono Fa#3 e Fa#4 chiudendo i fori I-IV. I suoni così prodotti hanno però la tendenza ad essere troppo bassi. Per rialzarli alquanto, si apre allo stesso tempo la chiave Mib (si veda sotto), ma anche così il risultato dell'intonazione spesso non soddisfa. S'intende che si potrebbe dare al foro V una posizione più alta, ma allora sorgerebbe un altro problema. Fa3 e Fa4 si producono con una diteggiatura a forcella, chiudendo i fori I-IV e VI, e lasciando aperto il foro V. Tali Fa hanno, però, già un'intonazione alta con la posizione in cui è il foro V. Con lo spostamento del foro V più in alto, i Fa diventerebbero insopportabilmente stonati. La soluzione è collocare il foro V assai in basso, sicché i Fa diventino sopportabili, poi, per suonare il Fa#, aprire non solo i fori V e VI e la chiave Mib, ma anche aprire parzialmente il foro IV. Per facilitare questa apertura parziale, anche il foro IV è a volte duplicato.
Per la ragione già esposta nelle schede relative ai flauti traversi, l'oboe ha sempre una chiave chiusa per il mignolo per Mib3 (o Re#3). Il cialamello aveva poi un settimo foro per l'estensione dell'ambito verso i bassi d'un tono. Nei cialamelli più grandi, e a volte anche in quelli soprani, il settimo foro aveva una chiave aperta per il mignolo. Nell'oboe c'è sempre una tale chiave aperta d'estensione per il mignolo, con la cui chiusura si produce Do3. Questa chiave d'estensione si trova sempre al centro del tubo. Per rendere possibile l'azionamento col mignolo destro oppure con quello sinistro, la paletta della chiave per Do3 è a farfalla.
La disposizione della chiave per Do al centro del tubo crea una complicazione per la chiave chiusa Mib, pure azionata col mignolo. Questa ultima chiave non può trovarsi al centro del tubo, già occupato dalla chiave Do. D'altro canto, anche la chiave Mib deve essere raggiungibile dal mignolo destro e da quello sinistro. La soluzione del problema consiste nella montatura di due chiavi per Mib, una a destra, l'altra a sinistra della chiave centrale per Do. Così, l'oboe barocco ha normalmente tre chiavi: una aperta per Do, due chiuse per Mib.
Il primo sviluppo dell'oboe consiste in una diminuzione del numero delle chiavi. Nella seconda metà del secolo XVIII i suonatori d'oboe - come quelli di clarinetto e di fagotto - usavano sempre più frequentemente la posizione della mano sinistra in alto e di quella destra in basso. Così, nel corso della seconda metà del '700 veniva abolita la chiave sinistra per Mib, e anche la paletta a farfalla della chiave Do. Dal 1750 l'oboe normale ha due chiavi per il mignolo destro: una aperta per Do e una chiusa per Mib sul lato destro del tubo. Tali oboi a due chiavi erano ancora in uso nel primo trentennio del secolo XIX.
Dopo, come abbiamo visto nei flauti, furono aggiunte altre chiavi chiuse per la produzione delle note cromatiche, ma nel caso dell'oboe solo dagli ultimi anni del secolo XVIII in poi. Tali chiavi sono:
Do#2 (mignolo destro);
Fa3 (chiave traversa per l'anulare destro);
Fa#3 si veda sotto;
Sol#3 (generalmente una chiave traversa per il mignolo sinistro);
Sib3 (a volte per il pollice sinistro, ma generalmente con una leva relativamente lunga per l'indice destro); portavoce (una chiave chiusa poco sotto l'ingresso, coprente un foro con un piatto metallico perforato, e azionata generalmente col pollice sinistro, per facilitare gli armonici da MI4 in su).
La chiave Fa# merita un breve commento. Come s'è già detto, la posizione del foro V sul tubo è troppo bassa per produrre un Fa con un'intonazione sopportabile, vista la necessità di produrre il Fa con una diteggiatura a forcella. Ma anche dopo l'applicazione della chiave Fa la diteggiatura a forcella non venne subito abbandonata, perché in certi casi - ad esempio suonando semplicemente Mi-Fa-Sol in tonalità comuni come Do e Fa maggiore o Re minore - risulta più facile applicare tale diteggiatura. Perciò, il foro era lasciato - in parte sino ad oggi - dove era già, e per correggere l'intonazione di Fa si aggiungeva una chiave chiusa con cui, quando è aperta con l'anulare destro, si può correggere tale intonazione. Infatti si tratta qui d'una chiave di risonanza.
Sono possibili ancora altre chiavi chiuse ma, dato che strumenti con tali chiavi non sono rappresentati in questa collezione, rimandiamo il lettore alla letteratura specializzata.
Abbiamo già detto che l'aumento del numero delle chiavi non è sempre accompagnato dalla rinuncia a diteggiature a forcella e chiusure parziali. Perciò, anche dopo l'introduzione della chiave per Sol#, il foro III resta a volte raddoppiato.
Vengono anche aggiunte chiavi aperte che servono per estendere l'ambito verso i bassi. Il caso più noto è la chiave per Si2: con l'introduzione di questa chiave si rinuncia ai fori di risonanza, a uno dei quali à applicata la chiave Si2. Quindi, l'applicazione di questa chiave non implica - come nel caso dei flauti traversi - l'allungamento del tubo. La chiave per Si2 ha sempre una leva lunga ed è azionata prima col pollice, poi col mignolo sinistro.
Anche nel caso degli oboi prescindiamo dalla descrizione dello sviluppo tecnico delle chiavi, i cui dettagli sono menzionati nelle descrizioni dei singoli strumenti.
Negli anni tra il 1840 e il 1880 l'oboe venne standardizzato in gran parte a Parigi, soprattutto col lavoro di Guillaume Triebert, di nascita tedesca, e di suo figlio Frédéric. In questa collezione non sono rappresentati oboi in cui si applicano il sistema francese o sistemi affini, sicché per questa materia rimandiamo il lettore a opere specializzate.
Dall'ultimo decennio del secolo XVII s'incontrano anche oboi d'un formato più grande, quindi con un fondamentale più basso. Tali strumenti sono senza eccezione traspositori. Si distinguono in:
l. oboe d'amore, generalmente in La, dunque traspositore d'una terza minore bassa, con una campana svasata per addolcire il timbro. Questo tipo nacque verso in 1720 in Sassonia e fu costruito poi anche in altri centri della Germania, per esempio a Norimberga. Conosciute sono soprattutto le voci per tali strumenti nelle opere di Johann Sebastian Bach, ma anche altri compositori tedeschi da Telemann a Dittersdorf lo prescrivono. L'etimologia dell'espressione "d'amore" è ancora materia di discussione.
2. oboi in Fa, dunque traspositori d'una quinta bassa. Essi si distinguono in:
- oboi tenori;
- oboi da caccia;
- corni inglesi.
Questi tre tipi sono trattati nei capitoli seguenti.
3. oboi baritoni o bassi all'ottava inferiore, nati nella prima metà del secolo XVIII. Sono conservati esemplari tedeschi (Johann Christoph Denner, Norimberga) e francesi (Charles Bizey, Parigi). Gli oboi baritoni o bassi hanno normalmente una forma diritta. A volte si trovano oboi da caccia all'ottava bassa (si vedano inv. 1786 e 1771, schede 43 e 44).
4. Esistono persino oboi contrabbassi alla quindicesima inferiore, estremamente rari.
Gli oboi tenori sono traspositori in Fa, dunque d'una quinta bassa. Sono generalmente costruiti come gli oboi normali, ma a volte hanno una campana svasata come gli oboi d'amore. Sono sempre suonati con un cannello per l'ancia. L'oboe tenore è menzionato per la prima volta in Inghilterra nel manoscritto di James Talbot (1665-1708), compilato a Cambridge intorno al 1695. Henry Purcell lo prescrive nella sua musica di scena per Dioclesian (1691). Lo strumento è conosciuto anche in Francia come taille o hautecontre de hautbois nel secolo XVIII, e la taille in varie composizioni di Johann Sebastian Bach è indubbiamente l'oboe tenore. Marie Thérèse Boquet (1696), citata da Bernardini (1985, p. 26) reca la testimonianza che l'oboe tenore veniva suonato nella cappella reale di Torino nel 1725.
Sono conservati oboi tenori di provenienza tedesca, francese e inglese. Il 2813/2814 di questa collezione (scheda 42) è uno strumento italiano di questo tipo, con una particolarità che non s'incontra altrove.
Gli oboi da caccia sono generalmente oboi traspositori in Fa, dunque d'una quinta bassa, con una costruzione speciale. In casi eccezionali - come negli strumenti descritti nelle schede 43 e 44 - un oboe da caccia può essere traspositore d'una ottava bassa. In tal caso lo strumento è di fatto un oboe basso o baritono con la costruzione dell'oboe da caccia.
Un oboe da caccia ha normalmente un corpo curvato, che può essere composto di due pezzi, quello superiore e quello inferiore. La curvatura del corpo è realizzata in una maniera estremamente complicata. Prima viene costruito il corpo - eventualmente in due pezzi con un tenone nel pezzo superiore e una mortasa nel pezzo inferiore - con la cameratura in un pezzo di legno diritto, o in due pezzi di legno diritti. Sono poi fatte tacche dal lato opposto a quello dei fori, tacche che vanno quasi sino al lato dei fori. Le tacche creano la possibilità di effettuare la curvatura. Il tubo è poi reso impermeabile all'aria con l'inserzione di piccoli cunei negli spacchi, e con la copertura del corpo con cuoio.
Il tubo termina con una campana di ottone o di legno, con sagoma iperbolica, senza svasamento e senza risalto verso l'interno intorno all'uscita.
Il nome oboe da caccia è probabilmente ispirato dalla forma curva e dalla campana con sagoma iperbolica, che fanno pensare al corno da caccia. Lo strumento è prescritto da Johann Sebastian Bach e da Johann Friedrich Fasch, maestro di cappella a Zerbst, una piccola corte sassone. Probabilmente l'oboe da caccia era usato anche nella musica all'aperto, nella banda del '700, dunque.
Lo strumento ha sempre un cannello per l'ancia, generalmente di ottone, da inserire nell'ingresso del tubo.
Il corno inglese è un oboe traspositore in Fa, dunque d'una quinta bassa, con la campana svasata che già incontrammo nell'oboe d'amore.
Nel secolo XVIII il corpo - a volte in un unico pezzo, a volte diviso in un pezzo superiore e uno inferiore - è curvato e costruito nella stessa maniera di quello dell'oboe da caccia. Fu indubbiamente il corpo curvato che fece chiamare lo strumento, che è in effetti un oboe, corno. L'etimologia di inglese è ancora materia di discussione. Ad ogni modo non si riferisce all'Inghilterra.
La forma curvata del corno inglese s'incontra a volte ancora sino al 1850. Intorno al 1800 si ideò una forma più facile da costruire: un pezzo superiore e un pezzo inferiore diritti sono collegati con un membro a gomito. Dal 1850 lo strumento viene costruito sempre di più nella forma diritta che prevale ancora oggi.
Il corno inglese nacque verso il 1720 ed è prescritto da compositori come Kuhnau e Johann Sebastian Bach. Già prima del 1750 fu adottato anche a Vienna e fu poi assunto in tutta l'Europa. Ancora oggi il corno inglese fa parte dell'orchestra sinfonica.
Anche la costruzione del fagotto subì cambiamenti radicali nella seconda metà del secolo XVII. Non sembra verosimile che costruttori francesi abbiano creato il modello barocco del fagotto. È invece probabile che costruttori sia dei Paesi Bassi (specie Richard Haka di Amsterdam), sia di Norimberga (in primo luogo Johann Christoph Denner) abbiano avuto una parte importante nella creazione del fagotto barocco.
Questo fagotto ha una cameratura in linea di massima conica. A prescindere dall'esse, a cui viene applicata l'ancia doppia - e che è inizialmente sempre di ottone, ma può essere di alpacca nei secoli XIX e XX - un fagotto dall'epoca barocca in poi è composto di quattro pezzi: il pezzo dell'esse, nel cui ingresso è applicato l'esse e nel quale il tubo discende; la culatta o il sacco, in cui il tubo scende sino in fondo, poi si piega e sale; il pezzo lungo; e la campana, entrambi col tubo ascendente.
Il pezzo dell'esse contiene i fori I-III, i quali, però, sono situati troppo in alto in relazione alla lunghezza della cameratura teoricamente necessaria per produrre le note rispettive. Per correggere questa disposizione dei fori, da una parte questi sono assai piccoli, ciò che abbassa i suoni prodotti, il pezzo dell'esse ha poi una sporgenza ellittica che contribuisce ad allungare la cameratura di questi fori. La sporgenza ellittica fa pensare a un'ala, motivo per cui il pezzo in questione si chiama wing-joint in inglese, Flügel in tedesco. Per aggiustare ancora di più l'intonazione delle note prodotte coi fori I-III, questi ultimi sono obliqui, il foro I in su verso l'ingresso, i fori II e III in giù verso il fondo della culatta.
La culatta contiene nella sua parte discendente i fori IV-VI, anche questi situati troppo in alto in relazione alla lunghezza della cameratura teoricamente necessaria. Per correggere anche questa disposizione, i fori IV-VI sono in primo luogo troppo piccoli, attraversano quindi la parete del tubo in senso obliquo, il foro IV in su verso l'ingresso, i fori V e VI in giù verso il fondo della culatta.
Il fagotto ha sempre un'estensione notevole dell'ambito verso i bassi. Coprendo i fori I-VI, il suonatore produce come fondamentale Sol1. Seguono verso i bassi: una chiave aperta sul davanti della parte discendente della culatta per Fa1, da azionare col mignolo della mano inferiore (la chiave Fa1 del fagotto è paragonabile con la chiave Do3 dell'oboe); un foro per Mi1 sul retro della parte ascendente della culatta, per il pollice della mano inferiore; poi sul retro del pezzo lungo una chiave aperta per Re1, un foro per Do1 e una chiave aperta per Sib0, questi ultimi tre da azionare col pollice della mano superiore. È tale estensione verso i bassi che rende necessario il prolungamento del tubo del fagotto.
Ci sono tenoni all'estremità inferiore del pezzo dell'esse e alle due estremità del pezzo lungo. Le mortase corrispondenti si trovano alle estremità superiori della cameratura discendente e di quella ascendente della culatta, e all'estremità inferiore della campana. Le mortase sono rinforzate con ghiere metalliche intorno all'estremità superiore della culatta e all'estremità inferiore della campana. Ghiere rinforzano anche l'ingresso, dove viene inserito l'esse per l'ancia doppia, e l'estremità inferiore della culatta, dove si trova la piega della cameratura. Per evitare danni nel posare il fagotto al suolo, il fondo della culatta è coperto d'un piatto metallico con paraurti generalmente in forma di due perni o viti. Il fagotto, essendo uno strumento assai pesante, è generalmente appeso al collo del suonatore con una corda, la quale con un uncino è agganciata a un anello in un occhiello di metallo sulla ghiera all'estremità superiore della culatta. Il fagotto è suonato posato contro la coscia destra (nel '700 a volte contro quella sinistra) del suonatore. Così è possibile che si producano dei danni soprattutto alla chiave Re1. Per evitare tali danni, questa chiave è spesso coperta e protetta con una gabbia di metallo, chiamata paracoscia. Le parti di metallo sono normalmente di ottone in fagotti prima dell'Ottocento, ma possono essere di alpacca nei secoli XIX e XX.
Generalmente sino alla prima metà del secolo XIX la campana può essere tornita con rigonfiamenti, eventualmente con un allargamento in forma di anello e a volte con una ghiera di ottone (nel secolo XIX anche di alpacca) intorno all'uscita. Tali rigonfiamenti e allargamenti spariscono verso la metà dell'Ottocento; allora c'è spesso un anello di avorio intorno all'uscita.
L'esse è conico; la sua cameratura si allarga da circa 4 a circa 9,5 mm. Il punto più stretto nel pezzo dell'esse si trova subito dopo l'ingresso, dove il diametro è di circa 10 mm. Al di sopra del punto più stretto nel pezzo dell'esse l'ingresso è alquanto allargato per procurare posto per l'inserzione dell'esse con l'ancia doppia. Dal punto più stretto la cameratura è continuamente conica - a prescindere da eventuali restringimenti o sezioni cilindriche nella campana - sino all'uscita che ha un diametro di circa 40 mm. La conicità della cameratura del fagotto dunque non è così pronunciata come quella dell'oboe.
Dal secolo XVIII vengono anche costruiti fagotti con formati più piccoli e più grandi, quindi con fondamentali più alti o più bassi. Ci sono fagottini alla quarta, quinta, sesta e ottava superiore, grandi fagotti alla quarta inferiore (tutti questi strumenti maggiormente nel secolo XVIII), e infine il controfagotto all'ottava inferiore. Lo strumento più antico dell'ultima categoria porta la data 1714, e questo tipo fa parte dell'orchestra sinfonica ancora oggi. Poiché la collezione non contiene fagotti piccoli e grandi, rinunciamo in questa sede a dettagli ulteriori riguardo a tali strumenti, tra cui soprattutto il controfagotto dimostra uno sviluppo alquanto differente da quello del fagotto normale.
Il fagotto ha dunque sei fori per le dita sul davanti. Aprendo i fori uno dopo l'altro, si produce la scala di Sol maggiore con Fa invece di Fa#, a partire da Sol1, estendentesi tramite la produzione degli armonici inizialmente per un ambito di due ottave. I suoni cromatici, come s'è già detto, sono realizzati tramite chiusura parziale dei fori e tramite diteggiature a forcella. Con le chiavi aperte per Fa1, Re1 e Sib0, - le uniche chiavi nei fagotti più antichi - e coi fori per i pollici per Mi1 e Do1 l'ambito è esteso verso i bassi sino a Sib0.
Verso il 1730 al più tardi si aggiunse una chiave chiusa per Sol#1 sul davanti della parte discendente della culatta, da azionare col mignolo della mano inferiore. Questa chiave corrisponde al Mib chiuso negli oboi barocchi. Dato che i suonatori di fagotto usavano anch'essi lo strumento con la mano destra oppure quella sinistra in basso, la chiave aperta per Fa1 doveva essere raggiungibile per il mignolo destro come per quello sinistro, e infatti i fagotti barocchi hanno una chiave per Fa1 con paletta a farfalla. Per la chiave chiusa per Sol#1 vale ciò che s'è già detto della chiave Mib3 negli oboi, e infatti ci sono fagotti, benché molto rari, con due chiavi Sol#1, una a destra e una a sinistra della chiave Fa1. Generalmente, però, anche un fagotto barocco ha solo una chiave per Sol#1 a destra della chiave Fa1, sicché si può dedurre che normalmente il fagotto era suonato con la mano destra in basso e quella sinistra in alto già nel secolo XVIII. Dopo il 1750 questa disposizione delle mani divenne l'unica possibilità, e allora spariscono sia la paletta a farfalla della chiave Fa1 sia la chiave Sol#1 a sinistra.
In un'epoca successiva, come nei flauti e negli oboi, furono aggiunte altre chiavi chiuse per la produzione dei suoni cromatici, ma, come nel caso degli oboi, questo fenomeno inizia solo negli ultimi anni del '700. Verso la fine del '700 furono aggiunte:
Mib1 (sul davanti del pezzo lungo per il mignolo sinistro in strumenti di provenienza tedesca; sul retro del pezzo lungo per il pollice sinistro in strumenti di altre provenienze);
Fa#1 (sul retro della culatta per il pollice destro).
Intorno al 1800 furono applicati due portavoce chiusi non lontano dall'estremità superiore del pezzo dell'esse, entrambe queste chiavi per il pollice sinistro:
La3 (per facilitare La3, Sib3 e Si3);
Do4 (per facilitare le note tra Do4 e Mi4).
Con queste otto chiavi è possibile realizzare un ambito da Sib0 sino a Mi4, dunque di tre ottave e mezza, con quasi tutte le note cromatiche. Mancano in primo luogo Si0 e Do#1, e all'inizio del secolo XIX furono aggiunte chiavi chiuse per queste note. Poco dopo sopravvennero chiavi chiuse per facilitare le note cromatiche Sib1 e Do#2, negli anni 1820 anche Mib2, una chiave Fa# per realizzare il trillo Mi2 - Fa# 2, prima praticamente ineseguibile, un terzo portavoce sull'esse, prima da aprire automaticamente con una delle chiavi Fa#2, La3 o Do4, in uno stadio successivo con una propria chiave chiusa, e infine una chiave aperta a un braccio sopra Do1.
Il fagotto è generalmente di acero; dal secolo XIX sono usati anche legni tropicali. La culatta contiene due camerature di sezione rotonda: una discendente e una ascendente. Perciò, questo pezzo ha una sagoma esterna ellittica. Già nel '500 era conosciuta la tecnica di tornire un pezzo di legno con sagoma esterna ellittica, ma risultava difficile - non totalmente impossibile - ricavare rigonfiamenti, anelli o blocchetti da tale pezzo. Per questa ragione già all'inizio del secolo XVIII furono montati supporti per le chiavi in forma di selle di ottone. Tali supporti rimasero tipici per il fagotto - benché fossero applicati a volte anche ai flauti traversi - sino agli anni 1830, quando divennero consueti i supporti in colonnini, in uso ancora oggi.
Negli anni 1830 si diramarono nettamente due tipi di fagotto: quello francese e quello tedesco, a prescindere dal "fagotto viennese" di Johann Ziegler, prediletto in Austria sino agli anni 1870. Il fagotto francese fu sviluppato dalla ditta Buffet-Crampon a Parigi, ed è suonato ancora oggi non solo in Francia e nel Belgio, ma anche spesse volte in Italia e sino agli anni 1930 in Inghilterra. Frattanto il fagotto in Germania fu prima perfezionato per opera di Carl Almenräder a Colonia, che fece costruire i suoi strumenti dalla ditta Schott a Magonza, negli anni 1817-1828, poi di Johann Adam Heckel e di suo figlio Wilhelm a Biebrich am Rhein presso Wiesbaden, negli anni 1830. Il fagotto dei tipo Heckel conquistò subito la Germania, poi l'Austria, finalmente negli anni 1930 anche l'Inghilterra.
La differenza tra i due tipi sta in primo luogo nel sistema delle chiavi: il tipo francese è più conservatore di quello tedesco. Sta inoltre anche nella cameratura, la quale nella campana dei fagotti francesi è appena conica, quasi cilindrica, mentre in quella dei fagotti tedeschi la conicità continua sino all'uscita. Questa differenza produce anche una differenza nel timbro: il fagotto francese ha una sonorità più sottile, ma alquanto disuguale per certe note, mentre quello tedesco ha una sonorità voluminosa, persino un poco grassa, ma uniforme per tutto l'ambito. Il fagotto del tipo Heckel è indubbiamente più solido del tipo Buffet, ma quest'ultimo ha il suo proprio fascino che fa sì che per lo meno in Francia e in Italia il fagotto francese non fosse abbandonato.
Il fagotto del tipo Heckel non è rappresentato in questa collezione.
Aerofoni con ancia semplice battente sono ancora in uso nella musica popolare in alcune regioni del mondo. Sono generalmente fatti nella maniera seguente. La parte principale dello strumento consiste in un tubo con cameratura cilindrica, nella maggior parte dei casi con fori per le dita, spesso tra tre e sei, in casi eccezionali con sette od otto. Nell'ingresso di tale tubo s'inserisce un tubetto più sottile, dalla cui parete si stacca una lingua rettangolare sì che questa resti attaccata al tubetto da uno dei lati corti, e possa battere sui bordi obliqui del taglio. Il tubetto con la linguetta o l'ancia semplice fa parte acusticamente del sistema dello strumento. Tali aerofoni sono chiamati nella terminologia organologica idioglotti. Gli aerofoni idioglotti hanno un gran numero di varianti, ad esempio con l'applicazione d'una capsula o d'una campana di corno o di zucca, persino di un otre, col quale nasce la zampogna.
Un fenomeno speciale in questo gruppo di strumenti è la duplicazione e addirittura triplicazione del tubo. S'è già detto che già nell'antichità l'aulos greco, la tibia romana e con ogni probabilità anche lo strumento corrispondente degli Etruschi potevano avere un'ancia semplice battente; tali strumenti avevano tubi raddoppiati. Strumenti triplici con ance semplici battenti sono le launeddas sarde. Strumenti doppi e triplici con ance battenti venivano usati nel passato anche in Calabria (Guizzi-Leydi 1985).
In molti casi i fori per le dita nei due tubi sono sfasati, in altre parole i fori dei due tubi non si trovano alla stessa altezza. Ci sono varie possibilità di sfasamento; ad esempio coi fori dei due tubi è possibile suonare in terze parallele; oppure i fori nel tubo lungo formano un prolungamento dell'ambito di quelli del tubo corto.
I due strumenti seguenti (schede 50 e 51) non sono clarinetti popolari doppi ad ancia semplice battente, ma sembrano essere sviluppati da tali strumenti. Probabilmente furono costruiti nel secolo XVII.
Indubbiamente l'appellativo di tali strumenti nel passato non era "clarinetto". Poiché ignoriamo la terminologia storica di tali strumenti, e dato che tali aerofoni appartengono allo stesso tipo del clarinetto, usiamo qui per tali strumenti il termine "clarinetto".
Dal clarinetto popolare con ancia battente semplice con un unico tubo, chiamato chalumeau, Johann Christoph Denner a Norimberga sviluppò uno chalumeau con un maggior numero di possibilità all'inizio del secolo XVIII. Egli sostituì il tubetto idioglotto con un bocchino in forma di becco d'uccello, a cui l'ancia separata viene legata con una corda di seta. Dato che bocchino e ancia sono parti separate in tali strumenti, questi sono chiamati nella terminologia organologica eteroglotti. Già nel secolo XVIII gli chalumeaux erano costruiti in vari formati, quindi con fondamentali diversi. Gli chalumeaux soprani constano di due pezzi: il bocchino in forma di becco d'uccello, a cui è applicata l'ancia semplice, con un rigonfiamento all'estremità inferiore con mortasa, dove è inserito il tenone all'estremità superiore della parte principale dello strumento, e appunto questa parte principale coi fori I-VI sul davanti. Questi ultimi emettono, quando vengono aperti uno dopo l'altro, la scala diatonica di Sol maggiore da Sol3 a Fa#4. Sul davanti c'è poi un foro duplicato per il mignolo destro oppure sinistro (m); quando questo viene chiuso lo strumento emette Fa3. C'è inoltre sul retro un foro per il pollice (p), più alto del foro I. Aprendo questo foro, lo strumento emette Sol4. Infine ci sono due chiavi chiuse montate in supporti in un anello tornito vicino all'estremità superiore della parte principale. Aprendo con l'indice della mano superiore la chiave sul davanti del tubo, si produce La4; quando si apre col pollice della mano superiore la chiave sul retro, lo strumento emette Si4. Uno chalumeau soprano ha quindi l'ambito da Fa3 a Si4. Gli armonici sono praticamente impossibili; eccezionalmente si trova Do5, armonico di Fa3.
La cameratura dello chalumeau è cilindrica. Ora, una cameratura cilindrica in combinazione con un'ancia (semplice o doppia) ha certe caratteristiche acustiche. Il tubo d'un tale strumento si comporta come un tubo d'organo chiuso. La prima conseguenza è la lunghezza del tubo: un tubo d'organo chiuso o uno strumento ad ancia con cameratura cilindrica ha una lunghezza che è circa la metà di quella necessaria per un tubo d'organo aperto o d'uno strumento che si comporta come tale, con lo stesso fondamentale. Un flauto dolce con fondamentale Fa3 ha una distanza tra il bordo superiore della bocca e l'uscita di 440-480 mm, uno chalumeau col fondamentale Fa3 misura poco più di 220 mm. La seconda conseguenza è che uno strumento ad ancia con cameratura cilindrica, come un tubo d'organo chiuso, ha armonici diversi da quelli emessi da tubi di organi aperti o da strumenti comportantisi come questi. Come s'è già detto, gli armonici d'un flauto dolce sono l'ottava, la duodecima, la decima quinta, la decimasettima, la decimanona ecc. del fondamentale. Uno strumento come lo chalumeau invece ha come armonici: la duodecima, la decimasettima ecc. del fondamentale. Questa produzione di armonici non solo influisce sul timbro, ma anche sull'estensione dell'ambito verso gli acuti. È per questa ragione che abbiamo detto che l'eventuale Do5 sullo chalumeau soprano si produce come armonico di Fa3.
Ci sono anche chalumeaux più grandi, soprattutto coi fondamentali Do3 e Fa2. Questi sono fatti normalmente in tre pezzi: dalla parte principale è staccato il piede col foro m. Dato che il piede è girevole, basta fornire un unico foro m.
La parte principale del tubo ha tenoni alle estremità superiore e inferiore che corrispondono a mortase all'estremità inferiore del bocchino, e a quella superiore del piede. Il bocchino e il piede hanno rigonfiamenti intorno alle mortase; il foro m attraversa il rigonfiamento del piede. Un tale chalumeau assomiglia molto a un flauto dolce. Non è da dimenticare che Johann Christoph Denner e suo figlio Jacob erano soprattutto costruttori di flauti dolci. Non è dunque da meravigliarsi che i loro chalumeaux diano l'impressione d'essere flauti dolci.
Uno chalumeau su Do3 ha una lunghezza di circa 330 mm, uno su Fa2 di circa 440 mm. (Flauti dolci su questi fondamentali avrebbero approssimativamente la lunghezza doppia). Ci sono anche chalumeaux con tubi più lunghi, specialmente strumenti col fondamentale Fa1, eventualmente con chiavi aperte d'estensione per portare l'ambito sino a Do1. Chalumeaux di quest'ultimo tipo hanno quindi quasi l'ambito del fagotto.
Gli chalumeaux sono prescritti da vari compositori dell'epoca barocca sino agli anni 1760. Antonio Vivaldi dà come traslitterazione del nome dello strumento scialmò.
Lo chalumeau in senso stretto è un tipo di strumento non rappresentato in questa collezione. Abbiamo però trattato di questo tipo di strumento perché funzionale alla comprensione dei clarinetti.
Lo chalumeau col fondamentale Fa2 fu il punto di partenza dello sviluppo del clarinetto normale. Poco tempo dopo, ancora nel secolo XVIII, furono derivati dal clarinetto normale altri strumenti simili - il clarinetto basso, il corno bassetto e il clarinetto d'amore - che formano una nuova famiglia.
La transizione dallo chalumeau col fondamentale Fa2 al clarinetto normale è dovuta a Johann Christoph Denner, costruttore di strumenti a fiato in legno a Norimberga, il quale realizzò tale transizione nei primi anni del secolo XVIII. Il cambiamento consiste soprattutto in due elementi. In primo luogo il piede dello chalumeau, in cui la cameratura cilindrica è continuata sino all'uscita, viene sostituito con una vera campana, in cui la cameratura, dopo la sezione cilindrica, si allarga notevolmente verso l'uscita. Tuttavia, la maggior parte della cameratura del clarinetto rimane cilindrica, quindi il clarinetto si comporta acusticamente come un tubo d'organo chiuso. La conseguenza più importante di ciò è che anche qui gli armonici sono non l'ottava, la duodecima, la decimaquinta ecc., del fondamentale, bensì solo la duodecima e la decimasettima. In secondo luogo, la chiave posteriore per il pollice della mano superiore fu spostata un poco in su, e vi fu immesso un tubetto di ottone (più tardi eventualmente di alpacca). Tale tubetto si trova ancora oggi nei clarinetti. Con questa chiave per il pollice della mano superiore aperta si produce Sib invece di Si, e con l'aiuto di questa chiave è relativamente facile produrre gli armonici. Così, l'ambito del clarinetto è portato per lo meno sino a Do5 (armonica di Fa3), successivamente persino più oltre, attualmente sino a Do6.
Anche col clarinetto le note cromatiche si producono con l'aiuto di chiusure parziali dei fori, o mediante diteggiature a forcella. Un'unica nota rimane impossibile con un clarinetto come quello descritto sopra: il Sib3 si produce con l'apertura di tutti i fori e entrambe le chiavi, il Do4 si realizza come armonico di Fa2, ma non c'è il Si3.
I primi clarinetti constano, come gli chalumeaux e i flauti dolci della stessa epoca, di tre pezzi: il bocchino con un rigonfiamento all'estremità inferiore; il corpo coi fori p, I-VI e le due chiavi, ormai con supporti non più in un unico anello, ma in due anelli ricavati dal legno del tubo, e con tenoni alle due estremità, e la campana con un rigonfiamento all'estremità superiore, rigonfiamento che il foro m attraversa.
Lo sviluppo ulteriore del clarinetto consiste in vari elementi. In primo luogo il bocchino viene suddiviso. Già intorno al 1720 il bocchino è diviso in due pezzi: il bocchino propriamente detto in forma di becco d'uccello, con un tenone all'estremità inferiore e il rigonfiamento, adesso chiamato barilotto con mortase a entrambe le estremità. Più o meno nello stesso periodo il corpo è suddiviso in due pezzi: uno coi fori p, I-III e le due chiavi con supporti in due anelli e con tenoni a entrambe le estremità, e un pezzo coi fori IV-VI, con un tenone all'estremità inferiore. Probabilmente intorno al 1750 quando furono aggiunte altre chiavi, su cui torneremo, la campana è suddivisa in una parte con rigonfiamento all'estremità superiore, col foro m e con le chiavi aggiunte e con un tenone all'estremità inferiore, e la campana propriamente detta, con una mortasa con rigonfiamento all'estremità superiore. Dopo questi cambiamenti un clarinetto consta dunque normalmente di sei pezzi:
1. bocchino (con un tenone all'estremità inferiore);
2. barilotto (con mortase a entrambe le estremità);
3. pezzo superiore (cilindrico, coi fori p, I-III e due chiavi; con tenoni a entrambe le estremità);
4. pezzo centrale (cilindrico, coi fori IV-VI; con un tenone all'estremità inferiore);
5. pezzo inferiore (conico, col foro m e le chiavi aggiunte; con un rigonfiamento all'estremità superiore, e con un tenone all'estremità inferiore);
6. campana (iperbolica, con rigonfiamento all'estremità superiore).
Intorno alle mortase il legno del tubo è dunque rinforzato anche nel clarinetto con rigonfiamenti che possono essere provvisti di anelli di avorio o di corno, eventualmente di ghiere metalliche. Come nei flauti e negli oboi, i rigonfiamenti diventano sempre più lievi verso la fine del secolo XVIII e all'inizio del XIX, per poi sparire interamente, con l'eccezione del rigonfiamento del barilotto che si può osservare ancora nei clarinetti odierni. Inoltre, le giunture vengono rinforzate con sempre maggiore frequenza con ghiere metalliche invece che con anelli di avorio o di corno; il clarinetto odierno ha esclusivamente ghiere metalliche alle giunture.
Il secondo elemento dello sviluppo del clarinetto nella seconda metà del secolo XVIII consiste nell'aggiunta di tre chiavi. Innanzitutto viene aggiunta una chiave col foro molto vicino all'allargamento della campana. Questa chiave è sempre aperta ed è da chiudere inizialmente con uno dei pollici, ma poi sempre - anche sui clarinetti odierni - col mignolo della mano sinistra. A questo scopo la chiave è provvista d'una leva lunga. Chiudendo questa chiave, si produce Mi2, ma soprattutto si genera il primo armonico Si3, che, come s'è già detto, mancava ancora. Quando esattamente sia stata aggiunta per la prima volta questa chiave, è un problema che non vogliamo cercare di risolvere in questa sede. Inoltre, la produzione delle note Fa#2 e Sol#2 e dei loro armonici Do#4 e Mib4 risultava difficile. Poco dopo il 1750 vengono aggiunte due chiavi chiuse per queste note, quella per Sol#2 per il mignolo destro, quella per Fa#2, come quella per Mi2, con una leva lunga per il mignolo sinistro. È da notare che in questa costruzione con cinque chiavi teoricamente la chiave Sol#2 dovrebbe essere situata al di sopra del foro m. Sino all'inizio del secolo XIX, però, il foro m per Fa2 attraversa il rigonfiamento all'estremità superiore del pezzo inferiore, mentre la chiave Sol#2, avendo un supporto in questo rigonfiamento, ha un foro al di sotto del foro m. Un tale foro m, situato in un punto acusticamente illogico, è generalmente designato come foro boemo.
Clarinetti con queste cinque chiavi (chiave aperta per Mi2, chiavi chiuse per Fa#2, Sol#2, La3 e Sib3) e col foro boemo sono tipici per la seconda metà del secolo XVIII e sono ancora costruiti sino al 1825 all'incirca.
Frattanto, però, come nei flauti traversi e negli oboi, vengono aggiunte anche altre chiavi chiuse soprattutto per la realizzazione delle note cromatiche. Intorno al 1800 si trova a volte:
Do#3 (chiave traversa chiusa col piattino a sinistra o a destra per il mignolo sinistro).
Nei seguenti 25 anni vengono aggiunte le chiavi:
Sib2 (chiave traversa chiusa col piattino a sinistra o a destra, per l'anulare destro);
Si2 (chiave chiusa di risonanza per l'anulare destro, da paragonare col Fa# sul flauto traverso e sull'oboe);
Mib3 (chiave traversa chiusa, generalmente col piattino a sinistra, per l'anulare sinistro, oppure con una leva lunga per l'indice destro);
Fa3 (chiave chiusa con una leva lunga per l'indice destro, eventualmente per l'anulare destro);
Sol#3 (chiave chiusa per l'indice o il medio sinistro).
Un problema da risolvere è quello del trillo La3 o La#3 - Si3. Qui si presenta lo stesso problema che abbiamo già incontrato nel flauto traverso, in cui è problematico il trillo Do4 o Do #4 - Re4. Con un clarinetto senza congegno speciale questo trillo è impossibile: La3 e La#3 si producono con tutti i fori e tutte le chiavi aperti (tranne, nel caso di La3, la Chiave Sib3), mentre Si3 si suona come armonico di Mi2 con tutti i fori e quasi tutte le chiavi chiuse. Per rendere possibile questo trillo, viene aggiunta una chiave per Si3 (chiave chiusa con leva lunga per l'indice destro).
Iwan Mueller (1786-1854) fu probabilmente il primo a ideare un clarinetto in cui il foro boemo con la sua posizione antiacustica è abolito e sostituito con una chiave aperta a leva a un braccio, per il mignolo destro, in una posizione acusticamente corretta. Il suo clarinetto a tredici chiavi (Mi2, Fa#2, Fa2, Sol#2, Sib2, Si2, Do#3, Mib3, Fa3, Sol#3, La3, Sib3, Si3) fu presentato già nel 1812.
Furono infine applicati al clarinetto certi principi desunti dal sistema Böhm: i fori per le dita furono posti nei punti giusti del tubo, inoltre fu ideato un sistema di chiavi, e soprattutto, di anelli mobili per rendere possibili le diteggiature per tutte le note. Nel 1839 Louis Auguste Buffet a Parigi ideò un primo sistema con un anello mobile sopra il foro II per azionare una chiave di risonanza Mi3, con anelli mobili sopra i fori IV, V e VI per azionare una chiave di risonanza Si2, e con le chiavi e gli anelli mobili attaccati ad assi con supporti in colonnini. I clarinetti 1817 e 1789 di questa collezione (schede 61 e 62) hanno un tale sistema di chiavi e anelli mobili. Hyacinthe Klosé, professore di clarinetto al Conservatorio di Parigi, ideò poi un sistema più perfetto, che fece eseguire anche da Buffet, sistema che fu brevettato nel 1844. Quest'ultimo sistema non è rappresentato in questa collezione. Ambedue i sistemi - chiamati Böhm parziale e Böhm completo - furono ideati a Parigi senza la collaborazione di Theobald Böhm. Infatti, in origine i sistemi furono chiamati systèmes à anneaux mobiles.
Adesso anche le leve lunghe per Mi2, Fa#2 e Sol#2 sono attaccate ad assi che devono attraversare la giuntura tra il pezzo centrale e quello inferiore. Per evitare complicazioni nella struttura delle chiavi, viene abolita la giuntura tra questi due pezzi. Così si genera un clarinetto composto di cinque pezzi: bocchino, barilotto, pezzo superiore, pezzo inferiore (contenente i fori da IV in basso sino alla campana), e campana.
Intorno al 1830 è poi introdotta la fascetta di metallo con due viti per fermare l'ancia, benché il vecchio sistema, in cui l'ancia è fermata con una corda di seta, non sia totalmente abbandonato, persino al giorno d'oggi.
Intorno allo stesso anno è cambiata la posizione dell'ancia: mentre prima si soleva suonare con la faccia del bocchino con l'ancia di sopra, dopo di allora si usa, sino ad oggi, la posizione inversa, dunque con la faccia del bocchino con l'ancia di sotto.
Il clarinetto è il più delle volte uno strumento traspositore. Già all'inizio s'incontrano varie tonalità; quelle più frequenti sono:
- in Mib (traspositore d'una terza minore più alta; generalmente in uso nella banda, e occasionalmente, per realizzare effetti speciali, nell'orchestra sinfonica);
- in Do (non traspositore; in uso nell'orchestra sino al 1850, dopo quella data invece molto raramente; il clarinetto in Do ha un timbro alquanto volgare);
- in Sib (traspositore d'un tono più basso; il clarinetto più comune sia nella banda, sia nell'orchestra);
- in La (traspositore d'una terza minore più bassa; in uso nell'orchestra).
Abbiamo accennato al fatto che per i flauti e per gli oboi si usavano pezzi di ricambio per adattare lo strumento a coristi diversi. Ci sono anche clarinetti con pezzi di ricambio - generalmente il barilotto, il pezzo superiore e quello centrale - che servono, però, non per l'adattamento a coristi diversi, ma per cambiare la tonalità. Il caso più frequente è quello dei clarinetti in Sib con pezzi di ricambio per cambiare la tonalità in La. Ci sono anche clarinetti in Mib con pezzi di ricambio per Re, e clarinetti in Do con pezzi di ricambio per Sib.
A parte i formati dettati dalle tonalità, la famiglia dei clarinetti fu ampliata già nel secolo XVIII con lo sviluppo d'altri membri. Intorno al 1740 appare il corno bassetto (non più corno del corno inglese), intorno al 1775 il clarinetto d'amore, all'inizio del secolo XIX il clarinetto contralto in Fa (traspositore d'una quinta più bassa). Il clarinetto basso, traspositore d'una ottava, d'una nona maggiore o d'una decima minore più bassa, esiste già all'inizio del secolo XVIII. Il clarinetto contrabbasso s'incontra molto raramente dopo il 1830. Di questi membri della famiglia dei clarinetti sono rappresentati in questa collezione solo il clarinetto d'amore e il clarinetto basso.
Il clarinetto d'amore fu ideato intorno al 1770. È un clarinetto in Lab, Sol o Fa (quindi traspositore d'una terza maggiore, d'una quarta o d'una quinta più bassa) con una campana svasata. Il nome si spiega con l'applicazione della campana svasata dell'oboe d'amore a un clarinetto in una tonalità bassa.
Il clarinetto d'amore è costruito come il clarinetto normale, ma ha un collo d'oca d'ottone, alquanto curvo, tra il barilotto e il pezzo superiore. Il collo d'oca è cilindrico. Il numero delle chiavi nei clarinetti d'amore varia generalmente tra tre e sei. Iwan Mueller ideò un clarinetto d'amore con tredici chiavi. I clarinetti d' amore conservati hanno raramente più di sei chiavi, sicché è da supporre che lo strumento diventasse obsoleto intorno al 1825.
Il clarinetto d'amore non è mai prescritto nell'orchestra sinfonica, ma appare in certe opere per complessi di strumenti a fiato nell'Europa centrale. Durante il periodo breve della sua vita il clarinetto d'amore fu dunque uno strumento da banda.
Il clarinetto basso è un clarinetto all'ottava inferiore del clarinetto normale. Come quest'ultimo, il clarinetto basso può essere traspositore in Sib, in La o in Do. Generalmente la voce del clarinetto basso è notata come quella del clarinetto normale, nella chiave del violino, sicché un suonatore di clarinetto normale può eseguire senza difficoltà la voce del clarinetto basso. Allora la voce del clarinetto basso traspone d'una nona maggiore più bassa nel caso d'uno strumento in Sib, d'una decima più bassa nel caso d'uno strumento in La, e d'un'ottava più bassa nel caso d'uno strumento in Do. In certi casi si nota la voce del clarinetto basso nella chiave del basso, e allora la voce è da trasporre d'un tono più basso per uno strumento in Sib, d'una terza minore più bassa per uno strumento in La, mentre uno strumento in Do in questo caso non è traspositore. La maggior parte dei clarinetti bassi è in Sib.
Il clarinetto basso nacque poco dopo il 1700. Per più d'un secolo fu soprattutto uno strumento da banda. La forma era spesso quella del fagotto o del serpentone, anche dell'oficleide dopo la nascita di quest'ultimo strumento. Nella seconda metà del secolo XVIII vennero costruiti clarinetti bassi in forma di clarinetti grandi. Questa forma fu sviluppata nel secolo XIX soprattutto in Francia: vennero ideati clarinetti bassi sempre con un collo d'oca tra il bocchino e la sezione diritta del tubo, in parte con la campana diretta in basso come continuazione della parte diritta del tubo, in parte in forma di pipa con la campana piegata in alto.
Negli strumenti con la campana diretta in basso e in quelli in forma di pipa la disposizione delle chiavi è una variante di quella dei clarinetti normali. Nel 1838 Adolphe Sax a Bruxelles ideò un clarinetto basso con la disposizione delle chiavi come nei clarinetti normali, ma con sette chiavi aperte sopra i fori per le dita. È questo strumento che Hector Berlioz descrive nel suo Traité d'instrumentation (1843). Il n. 1849 di questa collezione (scheda 64) appartiene al tipo ideato da Sax in forma di pipa.
Giacomo Meyerbeer prescrive il clarinetto basso nell'orchestra d'opera per la prima volta ne Les Huguenots nel 1836, quindi ancora prima del clarinetto basso ideato dal Sax. Da allora in poi il clarinetto basso è uno strumento piuttosto frequente nell'orchestra sinfonica e in quella dell'opera. Sino ad oggi sono usati sia strumenti con la campana diretta in basso sia che strumenti in forma di pipa.
I corni e le trombe formano un gruppo di strumenti aerofoni, in cui la generazione della vibrazione e quindi del suono ha luogo in una maniera speciale che è già stata trattata. È difficile fare una netta distinzione tra corni e trombe. Ripetiamo qui l'ipotesi formulata nel 1979 (van der Meer 1979):
un aerofono è un corno quando è storicamente riducibile a uno strumento aerofono fatto di materiale animale: corno di mammifero unghiato, dente (canino d'elefante o di narvalo), o conchiglia elicoidale di gasteropode marino. Invece un aerofono è una tromba quando è storicamente riducibile a uno strumento aerofono fatto di materiale vegetale, generalmente un tronco scavato.
Questi strumenti formano il prototipo del corno in generale. Furono usati soltanto come strumenti da segnali, dapprima anche negli eserciti, ma dopo l'introduzione delle trombe islamiche come strumenti militari nel secolo Xl, quasi unicamente come strumenti per cacciatori, pastori e torrigiani. I cacciatori usarono i corni di materiale d'origine animale per lo meno sino alla fine del secolo XVIII. L'unico corno di questo tipo ancora oggi in uso è lo shofar degli ebrei, suonato nelle sinagoghe in occasione del rosh hashana, il capodanno ebraico.
I corni dei cacciatori sono fatti generalmente con corni di buoi o bufali; i pastori usano anche corni di vacca, di capra e di montone. Lo shofar è nella maggior parte dei casi fatto di corno di montone. I corni di materiale d'origine animale erano cotti e poi piegati nella forma definitiva. Esistono corni leggermente curvati, semicircolari e anche diritti. Lo shofar ha la forma diritta con la terminazione curvata a mo' di mazza.
La cameratura è conica e relativamente larga, e permette la produzione d'un unico suono o al massimo di due. I corni primitivi hanno un'imboccatura che consiste in un allargamento conico dell'ingresso del tubo. Nei corni alquanto più sviluppati l'ingresso del tubo è scavato per permettere l'introduzione d'un bocchino separato. I corni di materiale d'origine animale di questa collezione sono tutti strumenti da caccia semicircolari.
Esistono corni a cui sono applicati i fori per le dita, già prima applicati ai flauti e agli strumenti ad ancia, eventualmente con chiavi. Talvolta s'incontrano già tra i corni fatti di materiale animale strumenti con fori per le dita, ad esempio il wallhorn svedese.
Generalmente gli strumenti di questo gruppo hanno, però, un tubo fatto di legno duro (bosso, noce, legno d'albero da frutta, acero), in casi rari d'avorio, e nel secolo XIX occasionalmente di metallo.
Appartengono a questo gruppo i cornetti curvi (coi corni torti e i cornettini), i cornetti diritti e muti, i serpentoni e i corni bassi. È sorprendente che la maggior parte degli strumenti di questo gruppo - i cornetti curvi (coi corni torti e i cornettini) e i serpentoni - rispettino l'archetipo della forma curvata del corno, ciò che implica un procedimento di manifattura poco agevole.
I cornetti curvi, i cornettini e i corni torti hanno sempre un tubo curvato. La curvatura nei cornettini e nella maggior parte dei cornetti curvi è semplice (i cornetti curvi a forma di esse o di serpe sono piuttosto eccezionali); i corni torti hanno generalmente una curvatura in forma di esse. La cameratura di questi strumenti è senza eccezione conica.
Il tubo è nella maggior parte dei casi di legno duro (bosso, noce, legno d'albero da frutta, acero). Tali strumenti si fabbricano con due ceppi di legno che sono segati in modo da dare loro la desiderata forma curva, dopo di che i ceppi sono scavati e tagliati sì che la sezione esterna del tubo diventi ottagonale, infine incollati. Il tubo per circa un terzo della sua lunghezza, iniziando dall'ingresso, è fregiato con rombi intagliati che si vedono attraverso la copertura di cuoio, di cui daremo indicazioni.
Le due metà del corpo vengono consolidate con avvolgimenti di filo o di nerbo, oppure con una o due ghiere. Gli avvolgimenti si trovano normalmente subito sotto la parte fregiata di rombi, poi nel centro dei fori anteriori tra i fori III e IV (nei cornetti curvi e nei cornettini tra il 50% e il 62,5% della lunghezza del tubo, nei corni torti al 50% della lunghezza), e alcuni cm prima dell'uscita. Una ghiera, generalmente di ottone, rinforza quasi sempre la parte del tubo più soggetta a danni: l'ingresso, dove s'immette il bocchino. Porre una seconda ghiera all'uscita non è d'uso comune.
Infine il tubo è rivestito di cuoio o pergamena. Il rivestimento può avere un'ornamentazione a bulino o a sigillo. La copertura è normalmente scura, per cui strumenti di questo gruppo erano chiamati cornetti negri. Il cuoio rende il tubo impermeabile e impedisce che le due parti si scollino.
Può sembrare strano che questi strumenti si fabbricassero con un procedimento poco agevole e di lunga lena. Indubbiamente la fattura alquanto complicata si spiega con la tradizione. Tali strumenti, come indica il nome, provengono dai corni che in origine erano fatti di sostanza animale e curvi. L'uso di cuoio o pergamena, oltre alla sua funzione pratica, conserva il ricordo del materiale d'origine, a parte i rari casi in cui lo strumento è di avorio.
La cameratura, come s'è già detto, è sempre conica. il punto più stretto varia generalmente tra 7,5 e 10,5 mm, il che corrisponde al 2,5-3% della lunghezza della cameratura nei cornettini; a circa l'1,5% nei cornetti curvi e a poco meno dell'1 % nei corni torti.
Gli strumenti appartenenti a questo gruppo formano una famiglia, di cui i cornettini possono essere considerati i soprani; i cornetti curvi i contralti; i corni torti i tenori. Esiste anche un cornone basso che è, però, assai raro. In tali strumenti la funzione dei fori di diteggiatura è la stessa dei flauti e degli strumenti ad ancia: realizzare le note tra gli armonici. I cornetti curvi e i cornettini hanno sei fori (I-VI) sul piano anteriore della sezione ottaedrica del tubo, e un foro più alto sul piano opposto, poco sotto il fregio a rombi, per il pollice (p). Con l'aiuto di questi sette fori è possibile produrre una scala diatonica più o meno dorica. I toni cromatici, come nei flauti e negli strumenti ad ancia, sono realizzabili tramite diteggiature speciali. Il suono più basso del cornetto curvo è generalmente La2, in casi rari Sol2; quello del cornettino è Mi3 (inv. 1776, scheda 70), meno frequentemente Re3 (inv. 1777, scheda 69). Il suonatore può, con l'aiuto d'un numero ristretto di armonici, raggiungere un ambito di due ottave o poco di più.
Il corno torto, chiamato anche cornone (inv. 1783, scheda 86), è il tenore della famiglia. La disposizione dei fori è identica a quella dei cornetti curvi e dei cornettini, con Re2 come fondamentale. Il corno torto, però, ha sempre una chiave aperta d'estensione verso i bassi per la nota Do2. Questa chiave per il mignolo ha la forma rinascimentale: è di ottone, ha un piattino rotondo e piatto con una guarnizione di cuoio cucita e una paletta a farfalla, su cui torneremo. Il piattino e la leva della chiave sono fissati con perni in due occhielli inseriti nel tubo. La molla di ottone è fissata nel legno del tubo con un chiodo o una vite, con l'estremità della molla sopra la leva. La molla spinge l'estremità inferiore della leva verso il tubo, affinché la paletta stia lontana dal tubo il più possibile. Al di sopra della chiave si trova una gabbia perforata (capsula protettrice) di ottone, inchiodata al tubo. Il cornone basso con fondamentale Sol1 ha una costruzione identica.
I cornetti curvi, i cornettini e i corni torti venivano suonati con un bocchino di corno o di avorio, la cui forma assomiglia a quella del bocchino della tromba, benché le misure differiscano da quelle di quest'ultimo strumento. Il suonatore di tali strumenti collocava il bocchino non contro il centro, ma contro un angolo della bocca.
Ciò che è stato detto sulla disposizione delle mani del suonatore di flauti e di strumenti ad ancia vale anche per i cornetti curvi, i cornettini e i corni torti: era possibile non solo collocare la mano sinistra in alto e quella destra in basso, ma veniva usata anche la posizione inversa. Per rendere possibili le due posizioni delle mani, erano necessari certi accorgimenti. Tra i cornetti curvi e i cornettini sono da distinguere strumenti curvati a destra, il cui bocchino veniva collocato sull'estremità destra della bocca e in cui la mano destra era collocata in basso (inv. 1776, 1778, 1779, 1784, 1785, schede 70, 73, 74, 71, 72), e strumenti curvati a sinistra, il cui bocchino veniva collocato sull'estremità sinistra della bocca e in cui la mano sinistra era collocata in basso (inv. 1777 e 1780, schede 69 e 75). Per i corni torti non è possibile fare questa distinzione, ma le due diverse posizioni delle mani erano usate anche in questo tipo di strumento, il che si può dedurre dalla forma della paletta della chiave: questa è a farfalla, di modo che sia alla portata del mignolo destro come di quello sinistro.
In alcuni strumenti di questo gruppo si riscontra il marchio di orecchi di lepre, due per due (inv. 1783 e 1784, schede 76 e 71) o tre per due (inv. 1785, sched 72). Il marchio si trova sempre sul piano dei fori I-VI, nei cornetti curvi e nei cornettini tra il foro VI e l'uscita, nei corni torti tra la chiave e l'uscita. Inoltre in certi casi (inv. 1784, scheda 71) il marchio s'incontra anche sul bordo inferiore del tubo, all'uscita. Purtroppo nulla si sa sull'identità del costruttore o dei costruttori che usavano questo marchio. Non pare inverosimile che gli strumenti così marcati provenissero da una bottega veneziana. Vincenzo Galilei nel suo Dialogo della musica antica, et della moderna (1581, p. 146) sostiene che tra i cornetti "in Venetia si fanno hoggi i meglio che vadino attorno".
Il cornetto si trova nell'iconografia già nel secolo XI, ma questo tipo ebbe il suo apogeo nei secoli XVI e XVII. Ancora nel 1677 Bartolomeo Bismantova, suonatore di cornetto a Ferrara, nel suo Compendio musicale fornisce regole per suonare il cornetto. La maggior parte degli strumenti conservati è databile in questi secoli. Nel secolo XVIII, e soprattutto dopo il 1750, il cornetto cadde in disuso, benché il suo uso occasionale sia documentato, sebbene raramente, sino all'inizio del secolo XIX.
I cornetti diritti e quelli muti hanno una cameratura conica, la cui origine è sempre da cercare nella conicità del corno di materiale animale, origine di tutti i corni. La conicità il più delle volte è l'unico elemento del corno che sia rimasto in tali strumenti. In tutti gli altri dettagli essi assomigliano agli strumenti delle famiglie dei flauti e degli strumenti ad ancia. La forma è diritta, il tubo tornito e trapanato - dunque non composto di due ceppi tagliati, scavati, poi incollati -, il materiale è, con l'eccezione dei rari strumenti di avorio, legno duro (bosso, legno d'albero da frutta, acero), e non c'è copertura di pelle scura. Dato il colore più chiaro del legno di tali strumenti, i cornetti diritti e muti, in contrasto coi cornetti negri, erano chiamati cornetti bianchi.
I cornetti diritti e quelli muti, come i cornetti curvi, hanno il più delle volte sei fori davanti e un foro, quello più alto, sul retro. Il fondamentale dei cornetti diritti è generalmente La2, quello dei cornetti muti normalmente Sol2. La scala varia tra quella dorica e quella maggiore.
I cornetti diritti hanno, come quelli curvi, un bocchino inseribile nell'ingresso. I cornetti muti invece hanno un ingresso lavorato a mo' di bocchino in forma d'imbuto, quindi un'imboccatura interna.
I serpentoni hanno generalmente un tubo in forma di serpente, con tre curvature in forma di U o di arco, e con una terminazione quasi circolare con l'uscita del tubo diretta in alto. Le curvature e la terminazione quasi circolare si trovano sullo stesso piano. La cameratura è sempre conica.
I serpentoni sono generalmente fatti di legno duro (noce, legno d'albero da frutta), ed erano fabbricati come i cornetti curvi. Quindi le due metà erano tagliate da due ceppi, scavate, incollate, dopo di che il tubo era coperto di cuoio scuro. Non ci sono rombi intagliati.
Serpentoni di ottone, come inv. 1773 di questa collezione (scheda 79) sono piuttosto rari, ma sono esplicitamente menzionati nel 1636 da Marin Mersenne, e nel 1680 da Pierre Richelet, quest'ultimo ripreso da Johann Gottfried Walther nel 1732 (Gutmann 1982, p. 52). Anche i serpentoni di ottone hanno un rivestimento di cuoio.
Nell'ingresso del tubo è inserito un collo d'oca di metallo, generalmente di ottone, ugualmente con una cameratura conica. Dove il collo d'oca è inserito, il tubo è rinforzato con una ghiera piuttosto larga. Nell'ingresso del collo d'oca è inserito a sua volta un bocchino, generalmente di corno o di avorio, più o meno corrispondente a quello del trombone basso.
La cameratura d'un serpentone differisce alquanto da quella d'un cornetto curvo. Essa progredisce nella parte principale del tubo da circa 0,9 a 4,5% della lunghezza. Il collo d'oca ha un diametro che può arrivare al 0,5% della lunghezza dello strumento intero. Ad ogni modo, le differenze tra il diametro d'un serpentone e quello d'un cornetto sono tali che è inesatto considerare il serpentone come il contrabbasso della famiglia dei cornetti.
Quasi sempre il serpentone ha sei fori (I-VI) ed è privo d'un foro per il pollice. I fori I-III si trovano all'inizio della terza curvatura in forma di U, i fori IV-VI all'inizio della terminazione quasi circolare. Il foro per il pollice (p) nel 1773 è piuttosto eccezionale. Normalmente il fondamentale è Do1. I sei fori rendono possibile una scala diatonica, benché, date le posizioni acusticamente inesatte dei fori per le dita, risulti difficile un'intonazione giusta delle singole note. Si suonano le note cromatiche intermedie con diteggiature speciali. L'ambito si estende per due ottave e mezzo.
Il serpentone sarebbe stato inventato dal canonico Edme Guillaume di Auxerre intorno al 1590. Ad ogni modo lo strumento fu usato specialmente in Francia dal secolo XVII per accompagnare il canto gregoriano nelle chiese cattoliche, il che fu biasimato da Berlioz nel 1844 con parole di eloquente chiarezza: egli considera lo strumento davvero barbarico, e "più adatto all'idolatria sanguinaria dei Druidi che al culto cattolico, dove esso figura, mostruoso monumento di quella mancanza di giudizio e rozzezza di sentimento e di gusto che, da tempi immemorabili, dominano nelle chiese della Francia l'applicazione dell'arte musicale al servizio divino." A noi postconciliari sembrerebbe che Berlioz stesse parlando del culto cattolico attuale, almeno sarebbe così se in quest'ultimo si usasse ancora il canto gregoriano...
Infatti, suonato da un interprete senza adeguata tecnica, il serpentone ha un timbro tutt'altro che bello e un'intonazione difettosa. Suonato da un buon musicista, invece, il serpentone può anche emettere suoni dolci e puri d'intonazione. Per quest'ultima ragione era usato nella seconda metà del secolo XVIII e nella prima del XIX nelle bande e persino nelle orchestre sinfoniche e in quelle d'opera anche fuori della Francia - tra l'altro in Italia - per fornire bassi sonori. Furono con ogni probabilità serpentoni di ottone ad essere usati nelle bande. Nell'orchestra sinfonica o quella d'opera lo prescrivono compositori come Gioacchino Rossini, Michele Carafa, Felix Mendelssohn-Bartholdy, Richard Wagner e ancora Giuseppe Verdi ne I vespri siciliani (1855).
Una gran parte dei serpentoni conservati è del '700 e della prima metà del secolo seguente: in Italia, ad esempio, sono conservati strumenti di Lorenzo Cerino a Torino (fine del '700) e di Tomaso Berti a Bologna (inv. 1782, scheda 78).
Per migliorare l'intonazione nella banda e nell'orchestra furono costruiti anche serpentoni con chiavi. Nel corso della prima metà del secolo XIX il serpentone in forma di serpe fu via via sostituito con strumenti simili in forma di fagotto (corno basso), con l'oficleide ed infine con la tuba, ancora oggi in uso nelle bande, nelle orchestre sinfoniche e in quelle d'opera. Tali strumenti non sono rappresentati in questa collezione.
Nell'età del bronzo furono costruiti corni anche di metallo. Sul territorio dell'Italia attuale si sviluppò ad esempio il cornu, un corno in forma di G, con un tubo della lunghezza di più di tre metri, con una cameratura piuttosto stretta e con un'impugnatura in forma di barra che attraversa la G. Tali strumenti erano raffigurati già dagli Etruschi, dai quali li adottarono poi i Romani.
Anche il Medioevo conosceva corni di metallo, in parte di forma semicircolare - corni di tale forma furono suonati come strumenti militari ancora nel secolo XVIII e all'inizio del XIX -, poi con una o più spire quasi circolari dal secolo XIV - di questa forma era generalmente anche il cornetto da postiglione, in uso dal Cinquecento sino all'Ottocento -, infine, dal secolo XIX, anche in forma di tromba (i fliscorni). Oltre che nell'esercito e da parte dei postiglioni, tali strumenti erano usati nella caccia.
I corni primitivi di metallo hanno una cameratura con un diametro assai largo, all'ingresso tra 1 e 1,6% della lunghezza del tubo. Con un tale diametro sono possibili, come nel caso dei corni di materiale animale, poche note: il fondamentale e forse il primo armonico. I cornetti da postiglione e i fliscorni hanno diametri iniziali più stretti, intorno allo 0,7 e 1% della lunghezza. Con tali strumenti sono possibili sino a sei o sette note.
I grandi corni da caccia con spire quasi circolari subirono uno sviluppo in Francia nella seconda metà del secolo XVII: tali corni hanno un diametro estremamente stretto. Il diametro iniziale è di 7 mm, mentre nei secoli XVII e XVIII la lunghezza poteva variare tra 2500 e 4500 mm. Il diametro all'ingresso è quindi tra lo 0,3 e lo 0,15% della lunghezza del tubo. Con tali proporzioni il suonatore può produrre un gran numero di armonici, ad ogni modo sino al 16°, con strumenti in tonalità basse addirittura sino al 20°. È anche vero, però, che con una cameratura così stretta è impossibile produrre il fondamentale.
Nel 1680 il conte Franz Anton von Sporck conobbe tali corni in Francia, da dove li importò nel suo paese nativo, la Boemia. Dalla Boemia la conoscenza di questi strumenti si propagò all'Austria e alla Germania, poi agli altri paesi dell'Europa occidentale.
Con la possibilità di produrre con questi strumenti almeno 15 note, i compositori pensarono all'utilità di tali corni nell'orchestra, e infatti vari compositori del secolo XVIII diedero voci soliste a corni di questo genere. Si pensi ad esempio al primo concerto brandeburghese di Johann Sebastian Bach.
I nn. d'inv. 1851 e 1851bis di questa collezione (schede 81 e 82) sono questi corni semplici. Poiché con tali strumenti è possibile suonare solo gli armonici e le loro varianti, si chiamano corni naturali. Strumenti di questo genere hanno soprattutto due svantaggi. In primo luogo sono possibili solo tra 15 e 20 armonici, la cui intonazione - ad esempio quella del 7°, 11°, 13° e 14° - non è giusta, ma correggibile tramite l'imboccatura. In secondo luogo tale corno naturale ha sempre una determinata tonalità: sono possibili soltanto gli armonici sopra un determinato fondamentale. Quest'ultimo fatto spiega la restrizione delle tonalità nelle opere barocche che includono un corno: sono quasi sempre in Sib, Do, Re o Fa maggiore.
Il primo problema - quello del numero ristretto di note producibili - venne risolto forse già nella prima metà del secolo XVIII, ma la risoluzione venne formulata da Anton Joseph Hampel a Dresda nel suo metodo per il corno solo intorno al 1750. Inizialmente il corno era in genere suonato col padiglione in alto; poi Hampel rovesciò lo strumento: la mano sinistra del suonatore tiene lo strumento, il cui padiglione si trova ora sul lato destro del suonatore, che ci immette la mano destra. Tappando così l'uscita della cameratura, il suonatore può abbassare ognuno degli armonici d'un semitono, d'un tono o addirittura d'una terza minore. Mozart compose le sue opere per corno, specie i suoi concerti per corno e orchestra, e Beethoven la sua sonata per corno e fortepiano per tali strumenti naturali con la mano destra del suonatore che tappa il padiglione. Ovviamente i compositori e gli ascoltatori chiudevano un occhio - o piuttosto un orecchio - sul fatto che le note "tappate" avevano un timbro alquanto nasale contrastante col timbro aperto degli armonici. È ovvio che il corno inv. 1852bis (scheda 83) - ancora un corno naturale - veniva suonato "a mano", dato che il colore nero dentro il padiglione è assai logorato.
Il secondo problema - quello dell'unico fondamentale - fu risolto da un lato da Johann Werner a Dresda intorno al 1750, dall'altro da Anton Kerner a Vienna approssimativamente un decennio più tardi. La soluzione del Kerner consiste nell'applicazione d'una serie di ritorte d'imboccatura. Il principio di tali ritorte che servono per cambiare il corista del fondamentale era già conosciuto nel 1684. L'innovazione del Kerner consiste nel fatto che i corni del tipo da lui inventato possono essere usati praticamente in tutte le tonalità. Tali corni sono accordati in tonalità alte: generalmente in Do alto con un fondamentale teorico di Do1, ma a volte in Sib alto, con un fondamentale teorico di Sib0. La lunghezza del tubo per Do alto è di circa 2450 mm, quella per Sib alto di circa 2725 mm. Per la tonalità più alta s'inserisce solo un cannello d'imboccatura tra il bocchino e il pezzo d'imboccatura. Per realizzare delle tonalità più basse, una serie di ritorte d'imboccatura con spire quasi circolari, da inserire tra il bocchino e il pezzo d'imboccatura, serve per allungare il tubo e così abbassare il fondamentale. Generalmente vi sono ritorte per Sib alto (se il corno è in Do alto), poi per La, Sol, Fa, Mi, Mib, Re, Do basso e Sib basso. In alcuni casi v'è anche una ritorta supplementare per abbassare il fondamentale d'un semitono, con cui è possibile cambiare la tonalità di Do alto in Si alto, di La in Lab, di Sol in Fa#, di Re in Reb, e di Do basso in Si basso. Un tale corno a ritorte è il 1852bis di questa collezione.
La soluzione di Werner consiste nell'aggiunta d'un pezzo in forma d'arco (o di U) attraverso la spira principale. I gambi di questo pezzo possono incrociarsi, dove si allontanano dalla spira principale, o meno. Nel pezzo in forma d'arco s'introduce ad ogni modo la pompa generale del corno, con cui è possibile accordare lo strumento. Nel corno di Werner ci sono, però, varie ritorte scorrevoli in forma d'arco, eventualmente con una o più spire piccole alla curvatura. Tali ritorte possono sostituire la pompa generale, hanno lunghezze variabili, e possono così cambiare la tonalità del corno.
La pompa generale per accordare il corno risultò così pratica che un pezzo in forma d'arco (o di U) attraverso la spira principale - con o senza gambi incrociati - con pompa generale venne introdotto anche nel corno del tipo Kerner, in cui, però, la pompa non veniva sostituita con ritorte scorrevoli per cambiare la tonalità, ma in cui la tonalità si cambiava con introduzione di ritorte in forma di spira tra il cannello e il pezzo d'imboccatura. Per tale ragione, il corno 1852bis, che è del tipo Kerner con ritorte tra il bocchino e il pezzo d'imboccatura, ha sempre il pezzo in forma d'arco (o di U) attraverso la spira principale, con la pompa generale.
Il vantaggio, sia del corno di Kerner sia di quello di Werner, è che il suonatore può suonare in varie tonalità senza portare con sé una dozzina di corni. Restano due svantaggi. In primo luogo, anche con questi tipi di corno rimane escluso un cambiamento rapido di tonalità. In secondo luogo, tali corni sono sempre strumenti naturali, coi quali le note tra gli armonici possono essere prodotte solo con la mano situata nel padiglione. Resta quindi la qualità nasale di certe note.
Per risolvere questo problema vennero introdotte le valvole. Quando un suonatore aziona una valvola, è aggiunto un pezzo di tubo che allunga la cameratura e abbassa così il fondamentale e tutti gli armonici. Negli strumenti moderni - corni, trombe, fliscorni, tube, a volte anche tromboni - ci sono normalmente tre valvole. La prima abbassa il fondamentale e gli armonici d'un tono, la seconda d'un semitono, la terza d'una terza minore. Quando il suonatore aziona le singole valvole, a volte anche una combinazione di valvole, egli può realizzare una scala cromatica con un ambito di tre ottave e mezzo, per lo meno nei corni. Nel secolo XIX la tonalità normale per un corno a valvole è Fa, ma a volte erano usati corni in Mib. Anche nei corni a valvole c'è il pezzo in forma d'arco (o di U) attraverso la spira principale - con o senza gambi incrociati - con la pompa generale. Secondo il principio del corno del tipo di Werner la pompa generale poteva essere sostituita con una ritorta scorrevole d'una lunghezza differente che poteva cambiare il fondamentale e gli armonici d'un corno a valvole. I pezzi di tubo aggiunti avevano anche pompe per accordare. S'intende che, quando si cambia la tonalità del corno, i pezzi di tubo aggiunti debbono essere cambiati proporzionalmente tramite le pompe delle valvole. Il corno 1840 (scheda 85) è uno strumento a valvole con una pompa generale per la tonalità di Fa, che in origine probabilmente poteva esser sostituita con una ritorta scorrevole per la tonalità di Mib.
I primi strumenti a valvole furono costruiti verso il 1815 in Germania. Erano trombe, mentre le valvole furono applicate ai corni e ad altri tipi di strumenti alcuni anni più tardi. Il fatto che il corno 1847 di questa collezione (scheda 84) porti la data 1822, prova che esso appartiene ai primissimi strumenti a valvole in genere, ed è probabilmente il primo assoluto in Italia.
In questa sede non vogliamo trattare tutti i dettagli delle valvole, che possono avere varie forme. I corni 1847 e 1840 di questa collezione hanno valvole cilindriche, il primo d'una forma sinora sconosciuta. I primi strumenti a valvole ne avevano solo due, una per il tono, una per il semitono. Il fatto che i corni suddetti abbiano solo due cilindri, prova che questi strumenti appartengono agli albori degli strumenti a valvole.
Ancora oggi il corno con valvole è suonato con la mano destra nel padiglione, mentre quella sinistra aziona le valvole. Il corno 1840 ha la disposizione contraria: solo con la mano destra sono da azionare le valvole, sicché quella sinistra si trovava nel padiglione.
Il bocchino del corno ha la forma d'imbuto.
Le prime trombe erano, come s'è già detto, di materiale vegetale e non erano altro che tronchi scavati. Delle imitazioni in metallo - in molto casi già con un padiglione e con un bocchino separato - furono costruite in Mesopotamia (terzo millennio a. C.), in Egitto (dal XV secolo a. C.), presso gli Ebrei (hasosra, si veda Numeri, X), in Grecia (sàlpinx), presso gli Etruschi e i Romani (tuba). Tali strumenti sono in uso ancora oggi nell'Iran, nelle repubbliche islamiche dell'Asia centrale, in India, Nepal, Tibet, Mongolia, in Cina (ad esempio il la ba, cfr. lo strumento di questa collezione, inv. 1710) e in Giappone. Anche gli Arabi conoscevano questa forma di tromba diritta in metallo (nafir), ma ormai il tipo è estinto presso i popoli arabi. La cameratura di tali strumenti è spesso cilindrica, ma può essere, come quella del corno, conica; il padiglione può avere le forme più diverse. La tromba prescritta da Verdi nell'Aida (1871) è basata su una specie di archeologia musicale: il compositore volle riprodurre la tromba diritta degli Egizi.
La tromba con tubo diritto di metallo fu anche adottata nell'Europa medievale. La variante con tubo corto, documentata già nel secolo VIII, è un'adozione della tuba romana, la forma lunga, conosciuta dal secolo XI, un'adozione del nafir arabo (cor sarrazinois). Anche qui la cameratura può essere cilindrica o conica, e il padiglione può avere forme svariate.
Più si allunga il tubo della tromba diritta, dunque, più sono ricercate le tonalità gravi, meno maneggevole diventa lo strumento. La prima soluzione di questo problema consisteva nel dare alla tromba la forma di esse con un padiglione. Trombe in forma di esse s'incontrano nell'Europa medievale, nell'Iran del secolo XVI, e sono in uso ancora oggi in India (rana-çringa).
Più facile da maneggiare è la tromba con una risvolta ellittica e con padiglione. Questa è la forma che ebbe il sopravvento in Europa e che è la base della tromba odierna. Anche l'India conosce questa forma, generalmente chiamata tûrya, ma è possibile che questo subcontinente la adottasse dall'Europa.
Le trombe in forma di esse e quelle con una risvolta elittica hanno sempre una cameratura che è cilindrica nelle prime parti, mentre l'ultima parte è conica con un padiglione a sagoma iperbolica. Già nel secolo XVI e nel periodo successivo, sino al 1750, furono fatte a volte trombe con due risvolte ellittiche o in forme diverse. Dopo il 1750 la tromba ha sempre più frequentemente due o anche più risvolte.
La tromba con un tubo in forma di esse, piuttosto frequente nel Medioevo europeo, ebbe il suo apogeo nel trombone, il quale è quindi una forma speciale della tromba, come d'altronde indica il nome.
Le prime trombe a una o più risvolte sono strumenti naturali: con questi sono realizzabili solo gli armonici. Tra il secolo XVI e il 1750 certi suonatori di tromba svilupparono una tecnica estremamente specializzata e straordinariamente virtuosistica. Raggiungevano in primo luogo gli armonici alti - sino al 16°, a volte sino al 20° e 21° -, che formano tra di loro una scala in parte diatonica, in parte cromatica, e allora si specializzarono in questi armonici alti. In secondo luogo svilupparono una tecnica per abbassare e rialzare gli armonici con l'imboccatura, creando così la possibilità di correggere gli armonici con intonazione "falsa" (il 7°, 11°, 13° e 14°). In terzo luogo svilupparono questa tecnica in maniera tale da poter abbassare gli armonici ancora di più e da poter effettuare delle note fuori della serie degli armonici. Così era praticamente a disposizione dei suonatori e dei compositori una scala cromatica dal 6° sino al 16° armonico, eventualmente persino al 20° e 21°. Per tali suonatori virtuosi di tromba sono scritte le parti estremamente difficili che conosciamo soprattutto nei soli nelle opere di Johann Sebastian Bach.
Dopo il 1750 andava perdendosi a poco a poco questa tecnica virtuosistica e, con poche eccezioni, la tromba divenne uno strumento da orchestra per eseguire non più parti soliste, ma piuttosto parti intermedie. In tale funzione la tromba aveva bisogno della possibilità di realizzare tutti i suoni cromatici senza una tecnica altamente specializzata. Furono inventati vari metodi per cromatizzare la tromba.
La più antica consiste nell'applicazione della coulisse, su cui torniamo nel capitolo introduttivo dei tromboni.
Per poter cambiare abbastanza rapidamente la tonalità della tromba semplice, furono applicate ritorte anche alla tromba dal 1780 al 1850.
Nel primo quarto del secolo XIX furono fatti esperimenti per abbassare gli armonici della tromba tappando il padiglione, come nel corno. Questa tecnica, però, corrompeva talmente il timbro della tromba, che non ebbe successo.
Un certo successo ebbe l'applicazione di fori laterali nel tubo, coperti con chiavi chiuse. Una tale tromba a chiavi di Anton Weidinger fu brevettata a Vienna nel 1801, ma questi strumenti esistevano già intorno al 1750. Il concerto in Mib maggiore per tromba e orchestra di Joseph Haydn, all'epoca eseguibile soltanto con una tromba a chiavi, è del 1796. La tromba a chiavi era in uso soprattutto nelle bande sino al 1850, in casi eccezionali sino alla fine del secolo XIX. La tromba di questo tipo poteva essere provvista di tre sino a sei chiavi. La maggior parte di tali trombe ha cinque chiavi, e allora si ha una certa standardizzazione della diteggiatura. Dato che la posizione delle chiavi è puramente empirica, è necessario, nel caso di strumenti con tre, quattro o cinque chiavi, determinare empiricamente con quali chiavi o combinazioni di chiavi sia possibile effettuare una scala diatonica o cromatica.
Il 1852 di questa collezione (scheda 86) è una tromba con quattro chiavi. Abbiamo indicato nella descrizione per lo meno come realizzare la scala di Mib maggiore per due ottave. A volte succede che non esiste una diteggiatura per una determinata nota. In questo caso risulta impossibile suonare il Lab2.
La tromba a chiavi non è mai molto brillante, ma ha un timbro tra rozzo e mediocre, ragione per cui lo strumento non poté mantenersi nell'orchestra.
Verso il 1815 furono applicate alla tromba con sempre maggior frequenza le valvole. Le trombe moderne, sia nell'orchestra sia nella banda, sono sempre provviste di valvole; hanno meno brillantezza della tromba semplice, ma nemmeno possiedono la rozzezza di certe trombe a chiavi, e comunque possono essere suonate con la tromba a valvola tutte le note cromatiche per due ottave e mezzo.
Un modo per rendere cromatica la tromba consiste nell'aggiungere un pezzo di tubo che scivola in un altro tubo come in una guaina, eventualmente due pezzi di tubo che in tal maniera scivolano in due tubi-guaina. Il suonatore, facendo scorrere il tubo esterno lungo quello interno, può così allungare e raccorciare il tubo. Questo principio fu realizzato in due maniere.
Il punto di partenza della prima maniera è la tromba in forma di esse, oppure la tromba a risvolta ellittica. Il bocchino di tale strumento è costruito con un codolo lungo con la funzione di tenone, lungo il quale lo strumento intero può scorrere. Strumenti di questo genere appaiono con frequenza in raffigurazioni dei secoli XV e XVI. Per decidere se una tromba raffigurata sia uno strumento semplice o a tiro, basta guardare le mani del suonatore. Se questi tiene fermo con una mano il bocchino contro le labbra, è verosimile che si tratti d'una tromba a tiro. In Germania tali strumenti con una risvolta ellittica sono documentati ancora nel secolo XVII, e persino nella prima metà del XVIII, per lo meno con la supposizione che la tromba da tirarsi (o corno da tirarsi) in certi cori di Johann Sebastian Bach sia infatti tale strumento.
La tromba a tiro non è uno strumento facilmente maneggevole. Per abbassare un armonico d'un semitono con una tromba in Do è necessario spostare la risvolta lungo il codolo del bocchino di circa 15 cm; l'abbassamento d'un tono richiede uno spostamento di circa 28 cm; quello d'una terza minore uno di circa 42 cm. Infatti, in questa maniera è possibile abbassare gli armonici solo d'un semitono, d'un tono, eventualmente d'una terza minore.
Il punto di partenza della seconda maniera è l'antica tromba in forma di esse, in cui i piani delle due curve formano un angolo retto tra di loro. il primo pezzo d'un tale strumento è costruito con un ingresso e una terminazione, entrambi allungati con un tenone. Lungo questi tenoni scorre una coulisse che consta di due tubi diritti collegati da un tubo ad arco o in forma di U. Il secondo pezzo con il padiglione contiene la seconda curva dell'S.
Facendo scorrere la coulisse, il suonatore può allungare il tubo e così abbassare gli armonici. Dato che la coulisse scorre lungo due tenoni - invece di uno solo come nella tromba da tirarsi -, il suonatore, per abbassare un armonico, deve fare la metà del movimento della tromba da tirarsi. Questa economia del movimento ha come risultato che con uno strumento con coulisse è possibile abbassare gli armonici d'un semitono (spostamento in uno strumento in Sib, di circa 9 cm), d'un tono (spostamento di circa 15 cm), d'una terza minore (spostamento di circa 23 cm), d'una terza maggiore (spostamento di circa 34 cm), d'una quarta (spostamento di circa 46 cm) e - dal secolo XIX - d'un tritono (spostamento di circa 56 cm). Uno strumento a coulisse è per questa ragione più maneggevole d'una tromba da tirarsi. Con uno strumento di questo genere è possibile una scala cromatica di almeno tre ottave.
Tale strumento a coulisse resta sempre una specie di tromba. Ancora oggi più della metà della cameratura è cilindrica, mentre l'ultima parte è conica; il padiglione ha generalmente una sagoma iperbolica.
Solo in Inghilterra si applicava tale coulisse alla tromba normale. Generalmente furono le trombe grandi, quindi con fondamentali bassi, ad essere provviste di coulisse, ragione per cui tali strumenti sono chiamati tromboni.
Il trombone è documentato per la prima volta nell'ultimo quarto del secolo XV, ed è in uso ancora oggi. I cambiamenti che lo strumento subì nei cinque secoli della sua esistenza sono ben pochi.
Sino alla prima metà del secolo XIX erano usati quattro membri della famiglia:
- trombone contralto (fondamentale Fa1 o Mib1);
- trombone tenore (fondamentale Sib0);
- trombone basso (fondamentale Fa0 o Mib0);
- trombone contrabbasso (fondamentale teorico Sib-1 ).
Il trombone contralto fu abbandonato nel corso della prima metà del secolo XIX. Dal 1840 sono ancora in uso il tenore, il basso e il contrabbasso, e inoltre uno strumento combinatorio tra tenore e basso, generalmente con una valvola per abbassare il fondamentale da Sib a Fa.
Il membro più frequente della famiglia dei tromboni è il tenore. Dall'era napoleonica sino al 1850 furono costruiti prima in Francia, poi anche in Inghilterra, tromboni per banda, in cui il padiglione normale è sostituito con una testa di drago. Un tale buccin è il 1818 di questa collezione (scheda 87).
Dal 1830 furono applicati al trombone tenore, e anche al trombone combinatorio (tenore e basso) delle valvole, tre al tenore, quattro al tenore-basso. Tali tromboni a valvole sono frequenti nella banda e, soprattutto in Italia, anche nell'orchestra sinfonica e in quella d'opera. Fuori d'Italia sono ancora usati nelle orchestre quasi esclusivamente i tromboni a coulisse o a tiro.
I cordofoni sono strumenti, in cui primariamente un materiale solido elastico con tensione unidimensionale è messo in vibrazione. Nella maggior parte degli strumenti di questa categoria la vibrazione di tale materiale solido - le corde - è rinforzata da un risonatore, che in Europa generalmente ha la forma d'una cassa di legno. Tale cassa è normalmente coperta da una tavola armonica di legno morbido (conifera), spesso parallela alle corde e direttamente sotto di esse, tranne che nel caso delle arpe, in cui le corde fanno un angolo con la tavola armonica. In molti casi il contatto tra le corde e la tavola armonica è realizzato - e quindi la trasmissione delle vibrazioni è effettuata - mediante un ponticello. Il resto della cassa è frequentemente fatto di legno duro. Le corde sono fissate da un lato in un pezzo di legno normalmente duro (un somiere nelle cetre in senso generico; un cavigliere nei liuti in senso generico; un giogo nelle lire; un modiglione nelle arpe), mediante caviglie o piroli di metallo o di legno. L'attacco delle corde dall'altro lato dello strumento può essere realizzato in maniere diverse: con un blocco d'attacco normalmente di legno duro (molte cetre in senso generico), con un blocco all'estremità della cassa opposta a quella del cavigliere (cetere, chitarre battenti, mandolini napoletani, la maggior parte degli strumenti con corde strofinate, dunque ad arco), col ponticello che è dunque al tempo stesso listello d'attacco verso l'estremità della tavola armonica (liuti in senso specifico, mandolini del vecchio tipo, chitarre), o con un ponticello-listello nel centro della tavola armonica (arpe).
I cordofoni possono essere suddivisi secondo la loro costruzione e secondo la posizione delle corde in relazione alla cassa. Possono così essere distinti quattro gruppi:
1. le cetre in senso generico, in cui la cassa non ha altre aggiunte che un somiere e un blocco d'attacco, entrambi indispensabili, e in cui le corde si trovano in un piano parallelo alla tavola armonica (ad esempio arpe eolie, salteri, monocordi e anche cetre in senso specifico);
2. i liuti in senso generico, composti almeno d'una cassa e d'un manico, eventualmente con una tastiera, su cui possono essere raccorciate le corde, spesso con uno o più caviglieri; anche qui le corde si trovano in un piano parallelo alla tavola armonica (liuti in senso specifico, mandolini del vecchio tipo e quelli napoletani, chitarre, chitarre battenti, cetere, la maggior parte degli strumenti a corde strofinate, dunque ad arco);
3. le lire, che constano d'una cassa con due braccia, tra le quali v'è un giogo; anche qui le corde si trovano in un piano parallelo alla tavola armonica; le corde sono attaccate da un lato al giogo, dall'altro all'estremità inferiore della cassa;
4. le arpe, composte almeno d'una cassa e d'un modiglione attaccato alla cassa, e in cui le corde fanno un angolo con la tavola armonica; le corde sono attaccate da un lato al modiglione, dall'altro a un ponticello-listello sulla tavola. Si noti che quasi tutte le arpe europee hanno un telaio triangolare composto, oltre che del modiglione e della cassa, d'una colonna tra l'estremità inferiore della cassa e il modiglione.
Le cetre in senso generico sono nella maggior parte strumenti senza tastiera per raccorciare le corde (arpe eolie, salteri pizzicati o percossi, qânûn, arpanette ecc.). A volte, però, s'incontrano strumenti alquanto ibridi: tali oggetti sono cetre in senso specifico con una cassa con somiere e blocco d'attacco, ma una tastiera per raccorciare le corde è fissata alla tavola armonica (certi monocordi, cetre in senso specifico).
La maggior parte dei cordofoni a tastiera a leve (i clavicordi, gli strumenti a corde pizzicate - cembali, claviciteri, spinette, arpicordi - e i pianoforti a coda, a tavola e verticali) sono cetre in senso generico, ma dato che tali strumenti hanno una costruzione assai complicata con caratteristiche specifiche, li trattiamo in questa sede come un gruppo separato.
I liuti in senso generico, dunque i cordofoni a manico, possono essere suddivisi in due gruppi che, almeno dal secolo XVI in poi, ebbero uno sviluppo assai diverso: quello degli strumenti a pizzico (i liuti in senso specifico, i vari mandolini, le chitarre normali e quelle battenti, le cetere) e quello degli strumenti a corde strofinate. Lo strofinamento ha luogo generalmente mediante un archetto (le lire da braccio e da gamba, i rebecchini, le pochettes, le viole da gamba, le viole d'amore, le viole da braccio). Annoveriamo anche le trombe marine in questo gruppo, benché tali strumenti non abbiano sempre un manico separato e in tal caso dovrebbero essere menzionati tra le cetre in senso generico.
Un gruppo speciale tra i liuti in senso generico a corde strofinate è formato dalle ghironde, in cui la frizione è applicata mediante una ruota coperta di colofonia. Annoveriamo anche le ghironde tra i liuti in senso generico, benché tali strumenti non abbiano sempre un manico separato. Inoltre, le ghironde hanno sempre una tastiera primitiva a leve.
Gli strumenti appartenenti al terzo gruppo, le lire, non sono più usati in Europa (dopo il Medioevo le lire furono suonate solo ad archetto, e unicamente nella musica popolare, al più tardi sino alla fine della seconda guerra mondiale), e non sono rappresentati in questa collezione. Nel Rinascimento carolingio, poi nel Rinascimento propriamente detto e infine intorno al 1800 qualche strumento del secondo gruppo ebbe la sagoma d'una lira. L'esempio più noto è la lira chitarra della prima metà del XIX secolo.
Il quarto gruppo comprende le arpe normali diatoniche e cromatiche della musica europea, e inoltre alcuni strumenti derivati. Questi ultimi non sono rappresentati in questa collezione.
Saranno trattati prima i cordofoni senza tastiera a leve, dunque senza una tastiera, come la conosciamo dagli organi, dai clavicordi, dai cembali e gli altri cordofoni a tastiera a corde pizzicate, e dai pianoforti. L'ordine sarà il seguente:
- cetre in senso generico senza tastiera a leve;
- liuti in senso generico: liuti pizzicati;
- liuti con corde strofinate: ad archetto; a ruota;
- arpe.
Seguiranno le cetre in senso generico con tastiera a leve (cembali, pianoforti).
Le cetre in senso generico sono cordofoni con una corda o più corde tese sopra un risonatore, a cui sono aggiunti i mezzi per tendere le corde (somiere, blocco d'attacco), senza altre aggiunte come un manico, braccia con un giogo o un modiglione. I risonatori delle cetre fuori dell'Europa possono avere le forme più disparate: d'un arco, d'una fossa scavata nella terra, d'un bastone rotondo o appiattito, d'una trave, d'un tubo con sezione rotonda o semicircolare, d'una zattera o d'una trave arcuata. Solo nei paesi di cultura islamica e in Europa s'incontrano cetre con un risonatore in forma di cassa di legno, con un fondo, una tavola armonica e generalmente con fasce.
Cetre con tali risonatori sono, tra l'altro, le arpe eolie, i salteri di varie forme, i monocordi e le cetre in senso specifico. La maggior parte delle cetre in senso generico è composto delle parti sopra menzionate, così le arpe eolie e i salteri. I monocordi e le cetre in senso specifico possono, però, avere una tastiera per raccorciare con le mani le corde, o per lo meno alcune corde. Tale tastiera è stata adottata dai liuti in senso generico, sicché i monocordi e le cetre in senso specifico possono essere strumenti ibridi.
Generalmente le cetre in senso generico hanno corde pizzicate dal suonatore. In alcuni tipi di cetra in senso generico le corde vengono percosse (tambourin du Béarn o altobasso, salteri con una cassa in forma di trapezio isoscele nei paesi europei al Nord delle Alpi e dei Pirenei). Qualche cetra in senso specifico ha corde strofinate con un archetto (il langspil islandese, la jouhi kantele finlandese, a volte il Noordse balk dei Paesi Bassi, le cetre alpine ad archetto, inventate dall'austriaco Johann Petzmayer nel 1823). Le arpe eolie erano appese all'aria aperta in modo che il vento potesse generare vibrazioni delle corde, e quindi suoni.
Le arpe eolie organologicamente non sono arpe, ma cetre in senso generico. Tali strumenti erano appesi all'aria aperta, sicché il vento poteva generare una vibrazione delle corde e così dei suoni. Le corde sono accordate all'unisono o all'ottava. L'acustica dell'arpa eolia è un problema non risolto in tutti i dettagli. È un fatto, però, che più forte tira il vento, più armonici - e soprattutto più armonici fuori del nostro sistema tonale - si fanno sentire. Il suono dello strumento nella bufera sembra sia raccapricciante.
In Europa i fenomeni eolici sono menzionati per la prima volta da Giovanni Battista Porta nella Magia naturalis (Roma 1540). L'arpa eolia, come strumento, è descritta per la prima volta da Athanasius Kircher, pure a Roma (Musurgia universalis, 1650; Phonurgia nova, 1673). L'apogeo dell'arpa eolia è nella seconda metà del secolo XVIII e nella prima del secolo successivo, soprattutto in Inghilterra e in Germania, quindi nell'epoca e nei paesi del romanticismo. Dopo l'inizio del nostro secolo l'arpa eolia sparisce completamente.
Nei primi secoli della sua esistenza l'arpa eolia aveva sempre una cassa a sagoma e a sezione rettangolari di legno morbido (generalmente conifera) con corde su un unico lato, con un somiere con caviglie metalliche da un'estremità, e con un blocco d'attacco in legno duro con punte dall'altra. Già l'arpa eolia descritta dal Kircher, però, poteva avere una presa di vento in forma di due ali e corde accordate all'ottava. Nel periodo dell'apogeo, soprattutto nel XIX secolo, vennero sviluppate diverse varianti: casse a sagoma e a sezione rettangolari con corde su due lati; casse a sezione di trapezio rettangolo; casse a sezione triangolare, spesso con corde su due lati del triangolo; casse a doghe o a sezione semicircolare. Il vantaggio di tali forme sarebbe stato che, da qualunque direzione soffiasse, il vento avrebbe sempre fatto suonare una o più corde.
Le corde possono essere di minugia o di metallo. Il loro numero varia generalmente da quattro a dodici; in casi rari ne vengono utilizzate anche di più. Nel secolo XIX appaiono anche varianti nell'attacco delle corde: sono introdotti caviglieri con piroli laterali, come nei violini; palette con piroli posteriori e anche ponticelli-listelli o comunque listelli sulla tavola, a cui sono attaccate le corde con bottoncini come nella chitarra coeva.
La specie più comune della cetra in senso generico è il salterio. In Europa e nei paesi di cultura islamica le casse dei salteri possono avere diverse sagome: quella triangolare, quella rettangolare, quella a trapezio isoscele, quella a trapezio rettangolo, quella di un'arpa. Generalmente i salteri sono pizzicati, spesso con un plettro, ma in certi casi sono percossi con martelletti (tambourin du Béarn o altobasso, i salteri con cassa in forma di trapezio isoscele dell'Europa a nord delle Alpi e dei Pirenei).
Il salterio con cassa a sezione di trapezio isoscele ha la sua origine probabilmente nell'area arabo-persiana, dove è usato verosimilmente già nel secolo XIII. Ancora oggi lo strumento è suonato, percosso con martelletti, nell'Iran e nell'Iraq col nome di santur (nome etimologicamente derivato dal psaltèrion greco, come pure la parola italiana salterio). Verosimilmente nel '700 lo strumento si diffuse in Asia dall'area arabo-persiana sino alla Cina, alla Corea, al Giappone, all'India meridionale e al Vietnam.
Già nel secolo XIV il salterio con cassa a sezione di trapezio isoscele si diffuse anche verso l'Occidente: attraverso la penisola balcanica, i paesi del Danubio, la Boemia e i paesi di lingua tedesca sino alla Francia e l'Inghilterra. In tutti questi paesi lo strumento fu percosso con martelletti. Tale salterio suonato con martelletti era chiamato in Italia salterio tedesco. Il cimbalom ungherese, usato soprattutto nei complessi musicali degli zingari di questo paese, è una forma perfezionata del salterio percosso, che si diffuse poi nella musica popolare dei paesi balcanici sino alla Turchia e all'Ucraina. Tale cimbalom fu a volte adottato anche nell'orchestra sinfonica (ad esempio da Zoltán Kodály, Béla Bartók, Igor Stravinsky e alcuni altri).
In Italia e nella penisola iberica il salterio fu pure adottato, ma qui era suonato generalmente a pizzico con un plettro. Dal punto di vista sociologico il salterio appartiene a un gruppo di strumenti musicali - insieme alla ghironda e alla zampogna - che hanno subito modificazioni notevoli di connotazione. Tali strumenti furono introdotti nella musica europea nel corso del Medioevo senza alcuna connotazione sociologica, dunque come oggetti socialmente neutri. Nel corso del secolo XVI questi strumenti furono abbandonati dalla musica «colta» e continuarono la loro vita nella musica che si potrebbe qualificare come «popolare». Poi, nei secoli XVII e XVIII, con lo sviluppo dei salotti, salteri, ghironde e zampogne furono adottati come oggetti di natura «pastorale» dai ceti alti, e allora non solo furono composte opere speciali per tali strumenti, ma questi subirono anche perfezionamenti che aumentavano le possibilità musicali. Dopo la rivoluzione francese, infine, gli strumenti con questi perfezionamenti tecnici ripresero lo stato di strumenti «popolari».
(Ci rendiamo conto che nella pratica odierna si suole evitare l'espressione «musica popolare», e si adopera sempre di più quella di «musica tradizionale». A nostro avviso l'espressione «tradizionale» che suggerisce una storia moltisecolare non può essere applicata a strumenti che hanno assunto perfezionamenti applicati nel periodo in cui essi erano oggetti da salotto. Perciò ci siamo attenuti all'espressione «musica popolare», forse non ideale, ma più conforme alla verità sociale dell'espressione «musica tradizionale».)
La cassa d'un salterio in forma di trapezio isoscele consta di due fasce - una anteriore più larga, una posteriore più stretta -, d'un somiere con le caviglie a destra ed un blocco d'attacco con le punte d'attacco delle corde a sinistra, visto da chi suona. Queste parti sono generalmente di legno duro. Sotto tali parti è applicato un fondo di legno morbido, sopra è applicata la tavola armonica di conifera con due, in certi casi con quattro rosette.
Per ogni nota non v'è una corda, ma un ordine di corde, inizialmente due, fino alla seconda metà del secolo XVII anche tre o quattro, dal 1650 alla fine del secolo XVIII quattro, cinque, sei o persino sette corde. Varia anche il numero di ordini: sino alla metà del secolo XVII si trovano ancora strumenti con dodici o tredici ordini, ma in questo periodo il numero di ordini più frequente è di 19, benché si trovino anche strumenti con un numero di ordini sino a 25. Dal 1650 alla fine del secolo XVIII il numero di ordini può variare tra venti e trenta.
La disposizione degli ordini può variare da strumento a strumento. Accenniamo a quella più frequente. In questa v'è una serie di ponticelli a destra, visto da chi suona, e una serie di ponticelli leggermente a sinistra del centro dello strumento. Gli ordini dispari posano sulla serie di ponticelli a destra, e passano poi tra aperture nella serie di ponticelli leggermente a sinistra del centro. Le corde di questi ordini sono inclinate leggermente in basso verso sinistra. Gli ordini pari passano tra aperture nella serie di ponticelli a destra, e posano sulla serie di ponticelli leggermente a sinistra del centro. Una serie di ponticelli può essere fatta in un pezzo con aperture praticate in essa per lasciar passare gli ordini di corde che non posano su di essa, oppure può constare di singoli ponticelli per ogni ordine, tra cui passano gli ordini adiacenti. Gli ordini che posano sulla serie di ponticelli a destra vibrano per tutta la sua lunghezza tra la serie di ponticelli a destra e il capotasto sul blocco d'attacco. Gli ordini che posano sulla serie di ponticelli a sinistra del centro hanno due parti vibranti: una tra la serie di ponticelli leggermente a sinistra del centro e il capotasto sul blocco d' attacco, e una tra questa serie di ponticelli e il capotasto sul somiere. La suddivisione è fatta in modo che ne risulti una quantità massima di note.
In certi casi i primi ordini non sono suddivisi, ma vibrano per tutta la sua lunghezza tra ponticello e capotasto. In tal caso ci deve sempre essere l'alternanza tra ordini che posano su un ponticello a destra, e quelli che posano su uno a sinistra. Si vedano gli ordini bassi nei due salteri descritti sotto.
In Spagna e in Italia furono sviluppati vari accordi, il cui risultato è una scala completa o quasi in Sol maggiore da Sol2 in alto, con le note cromatiche aggiunte. Nello sviluppo di tale sistema ebbe una parte importante Giovanni Battista Dall'Olio (1739-1823), attivo a Bologna, Rubiera e Modena, tra l'altro come suonatore di salterio. Scrisse Avvertimenti pe' suonatori di Salterio, pubblicati nel 1770. Le accordature proposte qui per i due salteri descritti sotto si basano su quelle elencate dal Dall'Olio.
Il numero di perfezionamenti portati ai salteri nella seconda metà del secolo XVII e nel XVIII è notevole; la loro descrizione eccederebbe i limiti di questo catalogo. Accenniamo solo all'invenzione del salterio doppio, un salterio con ordini di corde da ambedue i lati dello strumento, che ha dunque due tavole armoniche. Uno strumento di questo genere è il 1855 di questa collezione.
Il monocordo è una cetra in senso generico con una cassa - in origine, e generalmente anche nel corso della sua storia - a sagoma e sezione rettangolari. Nell'antichità greca lo strumento aveva originariamente una corda (ciò che spiega il suo nome), più tardi anche più corde, poi un ponticello spostabile o più di uno. Lo strumento serviva come oggetto didattico per dimostrare il rapporto tra le altezze dei suoni e le lunghezze vibranti delle corde, come suppellettile didattica per l'insegnamento del canto, e anche come strumento che veniva suonato in complessi nella pratica musicale.
Tramite Boezio (De Institutione Musica, inizio del secolo VI) il monocordo fu tramandato al Medioevo. In questo periodo troviamo menzionati strumenti con un numero sino a otto corde. In casi eccezionali la cassa poteva anche avere la forma d'un altro cordofono, per esempio quella di trapezio, ma anche di viola o di ghironda. Con quest'ultimo passo è varcato il confine tra cordofoni semplici o cetre in senso generico da un lato, e cordofoni con manico o liuti in senso generico dall'altro. Data questa imprecisione dei confini tra i due tipi, e dato anche che il clavicordo fu sviluppato dal monocordo a più corde, non è sempre facile fare distinzioni precise tra i vari generi di strumenti nei casi in cui nel tardo Medioevo si scrive di "monocordi". Così, quando Johannes de Muris nella prima metà del secolo XIV nella sua Musica speculativa parla d'un monocordo con 19 corde, sembra probabile che non si riferisca a un monocordo in senso stretto, bensì a un clavicordo.
È necessario ad ogni modo supporre che nei casi in cui il monocordo è usato come strumento della pratica musicale, i ponticelli spostabili sono sostituiti con una tastiera con tasti fissi. Così un altro elemento (la tastiera) del liuto in senso generico fu applicato a un tipo di cetra in senso generico. Questa fu indubbiamente il punto di partenza per lo sviluppo delle cetre in senso stretto, di cui si parlerà nel capitolo seguente.
È un fatto che il monocordo continuò la sua vita sino al secolo XIX, in parte come oggetto didattico, poi anche come apparecchio per accordare soprattutto strumenti a tastiera. Allora può avere più di una corda, e sino al secolo XIX può avere ancora persino ponticelli spostabili. Lo strumento 1767 di questa collezione (scheda 92) è un "monocordo" a quattro corde (che il costruttore, con conoscenze imperfette del greco antico, battezzò "trectacordo") con ponticelli spostabili, per applicare un'accordatura giusta al cembalo 1766 (scheda 141), il quale possiede una tastiera complicata con 31 note nell'ottava.
Il punto di partenza dello sviluppo delle cetre in senso specifico fu probabilmente il monocordo. Le cetre in questo senso hanno sempre una tastiera con tasti fissi incollata alla tavola armonica; sopra tale tastiera corre una corda o corrono più corde, e generalmente un certo numero di corde da accompagnamento corre inoltre accanto alla tastiera; queste ultime non possono dunque essere raccorciate. Come strumenti della musica popolare le cetre in senso specifico sono o erano usate nei paesi scandinavi - Finlandia e Islanda incluse -, nella Germania settentrionale, nei Paesi Bassi, nei Vosgi e nella parte meridionale dell'area di lingua tedesca (territorio alpino della Germania meridionale, della Svizzera e dell'Austria), da dove tali strumenti si diffusero anche nei territori alpini di lingua italiana o comunque neolatina sotto il dominio asburgico, come il Trentino, il Veneto, il Friuli e l'Istria. Generalmente questi strumenti sono o erano pizzicati con un plettro, più raramente con le dita, mentre in Finlandia e in Islanda sono suonati con un archetto. L'archetto era anche a volte usato col Noordse balk dei Paesi Bassi, ora obsoleto.
Questo tipo di strumento nacque nel secolo XVI e aveva inizialmente una cassa rettangolare, un cavigliere con piroli laterali e corde attaccate all'estremità della cassa opposta al cavigliere. In tale strumento è ancora visibile il rapporto col monocordo a più corde. Nel secolo XVIII furono introdotte alcune innovazioni. In primo luogo gli strumenti in Islanda, Norvegia, nella Germania settentrionale e nei Paesi Bassi avevano spesso una cassa con una curvatura verso l'esterno dal lato opposto della tastiera. In Svezia fu persino sviluppata una forma con una cassa con curvatura da entrambi i lati, o addirittura in forma di viola. Poi il cavigliere con piroli laterali fu sostituito con un somiere con caviglie di ferro anteriori.
Le cetre alpine - generalmente pizzicate con un plettro, a volte con le dita, e sempre con uno o più somieri con caviglie di ferro - ebbero uno sviluppo ulteriore. Già nel secolo XVIII fu sviluppato il tipo di cetra con la cassa ad una curvatura (a volte anche a due curvature) verso l'esterno dal lato opposto alla tastiera (tipo salisburghese). In molti casi la curvatura forma un angolo con la parte della fascia parallela alla tastiera. Nell'ultimo caso è possibile un secondo somiere nell'angolo con corde più corte, quindi con un suono più alto, chiamate Oktavchen (ottavine, corde all'ottava; cfr. il 1843). Sia le corde normali (quelle sopra la tastiera e quelle da accompagnamento) sia le corde all'ottava sono attaccate a punte in un blocco d'attacco. Sia il somiere (o i somieri) sia il blocco d'attacco hanno capotasti generalmente con un filo metallico in cima per evitare che le corde taglino il legno.
L'altro tipo di cetra sviluppato nelle regioni alpine all'inizio del secolo XIX ha una cassa con una o due curvature verso l'esterno da entrambi i lati (tipo di Mittenwald). Specialmente la cetra di Mittenwald con due curvature verso l'esterno da ambedue i lati fa pensare alla chitarra, essendo le corde fissate con bottoncini torniti nel ponticello.
Già verso la fine del secolo XVIII furono sviluppate cetre doppie e persino triplici, per mettere a disposizione del suonatore strumenti con accordature più basse e più alte, per meglio accompagnare il canto. Esistono varie forme di cetre doppie, ad esempio cetre con corde da entrambi i lati (come nel salterio doppio, cfr. il 1855), oppure strumenti con due cetre (entrambe con corde sopra una tastiera e corde da accompagnamento) in una unica cassa (cfr. il 1744). Le cetre più antiche sono strumenti usati per la musica popolare. Spesso hanno quattro corde, raggruppate due per due, sopra la tastiera. Questi ordini di corde possono essere accordati in La3 - Re3, oppure Sol3 - Do3 (cfr. inv. 1843 e 1744, schede 94 e 95). Il numero delle corde da accompagnamento è piuttosto ristretto (tra quattro e tredici, solo in casi eccezionali di più; cfr. i due strumenti or ora menzionati). Non si sa molto sull'accordatura delle corde da accompagnamento, e non si sa niente di preciso sulle corde all'ottava. Le cetre più antiche nella tastiera hanno tasti disposti per una scala diatonica, sempre missolidica (ad esempio Sol maggiore con Fa invece di Fa#; La maggiore con solo due diesis; cfr. gli stessi strumenti menzionati sopra).
Nel corso degli anni si costruì in Austria e in Baviera una forma più sviluppata di cetra, destinata più alla musica leggera che a quella popolare. Questa "cetra da concerto", sempre del tipo salisburghese, aveva prima quattro corde singole (La3 - La3 - Re3 - Sol2), poi cinque (La3 - La3 - Re3 - Sol2 - Do2) e prima 28, poi sino a 38 corde da accompagnamento, la cui accordatura è nota. Questa "cetra da concerto" ha sempre una tastiera con tasti disposti secondo la scala cromatica.
Come s'è già detto, la cetra s'incontra anche in territori alpini di lingua neolatina sotto il dominio asburgico. La "cetra da concerto" s'incontra a volte anche in un'area più estesa. Il 1854, fatto o per lo meno commerciato a Firenze, è uno strumento intermedio tra la cetra popolare e la "cetra da concerto", come traspare dalla fattura che è meno rozza di quella della cetra popolare, dalle quattro corde singole sopra la tastiera, dalle 17 corde da accompagnamento (un numero ancora alquanto ristretto, ma più dei 13 della cetra popolare), e dalla disposizione quasi cromatica dei tasti nella tastiera.
Le cetre in senso generico sono cordofoni semplici. Le altre categorie dei cordofoni sono tutte in qualche maniera composite. Una di queste categorie è formata dai liuti in senso generico, i quali, oltre la cassa, hanno per lo meno un manico. Le corde si trovano a breve distanza dalla cassa e dal manico e corrono parallele a questi. Strumenti appartenenti a questa categoria sono ad esempio il violino, la chitarra, il mandolino napoletano.
Sul manico le corde possono essere raccorciate anche senza una tastiera speciale, ma in tal caso è difficile raccorciarle oltre il manico sulla tavola armonica della cassa. In certi casi le corde vengono raccorciate anche oltre il manico, sulla tavola armonica della cassa. In questi casi è sovrapposta al manico una tastiera che si estende sopra la tavola della cassa. Si pensi alle chitarre e ai mandolini dal secolo XIX in poi, alle cetere, e a quasi tutti gli strumenti ad archetto (le pochettes, le lire da braccio e da gamba, le viole da gamba, le viole d'amore e le viole da braccio, tra cui è noto soprattutto il violino). Un caso intermedio è da registrare ad esempio in molti liuti anche senza tastiera speciale. Tali strumenti possono avere alcuni tasti fissi (si veda sotto) oltre il manico sulla tavola armonica.
Dove devono essere raccorciate le corde sul manico o sulla tastiera per ottenere determinate note? In certi casi non c'è sul manico o sulla tastiera alcuna indicazione di dove raccorciare, ed è la pratica del suonatore che gli fa mettere le dita nelle posizioni giuste. Tali casi sono ad esempio la viola d'amore e il violino. In altri casi le posizioni in cui le corde devono essere raccorciate per la produzione di determinate note sono indicati sul manico o sulla tastiera per mezzo di tasti. Questi possono essere di minugia e in tal caso legati attorno al manico o alla tastiera. Allora si chiamano legacci, che incontriamo ad esempio nei liuti, nella maggior parte dei mandolini del vecchio tipo, nelle chitarre prima della seconda metà del secolo XVIII, nelle lire da gamba, nelle viole da gamba. I tasti possono anche essere d'un materiale poco elastico (metallo, legno, avorio), e allora essere inseriti nel manico o nella tastiera, come nelle chitarre più recenti, nelle chitarre battenti, nei mandolini napoletani, nelle cetere.
Come abbiamo visto, la tastiera è un elemento che s'incontra anche nelle cetre in senso generico (monocordi, cetre in senso specifico), ma in tali casi si tratta sempre dell'adozione d'un elemento di per sé tipico per i liuti in senso generico.
Sino al tardo Medioevo non è sempre possibile distinguere nettamente tra strumenti a corde pizzicate, e strumenti a corde strofinate. A partire dal secolo XVI si sviluppano tipi specifici nel quadro delle due categorie. Pertanto facciamo qui la distinzione netta tra:
1. liuti in senso generico a corde pizzicate;
2. liuti in senso generico a corde strofinate.
Nella categoria dei liuti in senso generico a corde pizzicate sono da distinguere per lo meno nove tipi. In questa sede trascuriamo gli strumenti assai rari che ad ogni modo non sono rappresentati in questa collezione (la pandora, il penorcon, l'orpharion, il colascione) e ci limitiamo a trattare i gruppi seguenti:
- liuti in senso specifico;
- mandolini del vecchio tipo;
- chitarre e le chitarre battenti;
- mandolini napoletani;
- cetere.
I liuti in senso specifico almeno per due secoli e mezzo sono stati strumenti di assai grande importanza, persino gli strumenti a pizzico più importanti e usati. Nel corso di questo periodo (i secoli XVI, XVII e la prima metà del secolo XVIII) risulta una differenziazione molto ramificata, ma generalmente tutti questi differenziati strumenti hanno due caratteristiche in comune: sono composti d'un guscio e d'un manico con cavigliere, e hanno corde attaccate al ponticello. In casi molto rari si trovano liuti in senso specifico con corde attaccate all'estremità inferiore della cassa, e liuti senza guscio con elementi della kithàra.
I. Tra gli strumenti a corde pizzicate la storia del liuto in senso specifico è più facile da seguire. Le prime raffigurazioni del liuto risalgono al secolo X e si rinvengono in Spagna, il che non desta meraviglia, poiché si tratta d'uno strumento tramandato dagli Arabi che lo chiamano al'ûd (il legno), donde laúd in spagnolo, liuto in italiano ecc. Dal secolo XII il liuto è documentato in Francia, da dove si diffuse per il resto dell'Europa.
All'inizio la cassa del liuto era ricavata da un unico pezzo di legno insieme al manico e al cavigliere, dopo di che la tavola era sovrapposta alla parte scavata. Il fatto che cassa e manico erano ricavati da un unico ceppo aveva come conseguenza che la sagoma della cassa e del manico formava un'unica linea fluida. A volte nel secolo XIV e quasi sempre nel XV la linea tra cassa e manico faceva un angolo alla giuntura tra le due parti, dal che si può desumere che il manico era una parte separata incollata e inchiodata alla cassa. Probabilmente nello stesso periodo il guscio della cassa fu composto di doghe, il cui numero inizialmente era limitato. Per tener insieme il guscio così fatto, c'erano - in ogni caso nel secolo XV - uno zocchetto superiore alla giuntura della cassa col manico, e uno inferiore all'estremità opposta della cassa.
La tavola del liuto ha sempre una rosetta e sino al 1500 all'incirca ci possono essere anche più rosette. Il cavigliere è più o meno piegato indietro con piroli laterali; le corde sono annodate dal lato opposto al ponticello, che dunque è allo stesso tempo reggicorde. Il numero delle corde, sempre di minugia, varia tra sei e otto nel secolo XIV e sale generalmente a nove nel XV. In quest'ultimo caso si può constatare il principio degli ordini: due corde vicine sono accordate alla stessa nota. Un liuto con nove corde è quindi accordato a cinque note: 2 + 2 + 2 + 2 + 1 (oppure 4 x 2 + 1). La corda singola è sempre quella più alta, il cantino. Occasionaimente s'incontrano già nel secolo XV liuti con dieci corde, oppure cinque ordini doppi (5 x 2). Per facilitare la diteggiatura sul manico, questo era provvisto di legacci di minugia.
Sino al 1500 all'incirca il liuto era pizzicato con un plettro. Con un plettro è possibile far suonare una nota alla volta, non di più, e a fortiori non un accordo. Quindi, sino alla fine del secolo XV il liuto era uno strumento per eseguire un'unica voce in una composizione polifonica. Lo stesso vale per altri strumenti a corde pizzicate come la ghiterna, la chitarra e la cetera. Durante il Medioevo solo l'arpa e i cordofoni a tastiera potevano essere suonati polifonicamente.
Dopo il 1500 questa situazione cambia. Con la rinuncia al plettro il liuto diviene uno strumento polifonico. Seguono subito la chitarra e la cetera. Il mandolino del vecchio tipo (altro nome per la ghiterna medievale) segue nel secolo XVII. È strano che certi cordofoni pizzicati creati in un'epoca successiva adottassero di nuovo il plettro che con tali strumenti viene usato ancora oggi (chitarra battente, mandolino napoletano). Sono conservati pochissimi liuti del secolo XV.
II. Dal secolo XVI ci è invece giunto un certo numero di strumenti, benché spesse volte cambiati per adattarli alla pratica musicale dei secoli seguenti.
Nel periodo 1500-1580 il guscio è sempre composto di doghe. Il numero delle doghe è sempre dispari, ma in questo periodo piuttosto limitato: generalmente il guscio è composto di 9, 11 o 13 doghe. Il materiale più usato per queste è l'acero (inv. 1755, scheda 97). Le doghe sono tenute insieme da uno zocchetto superiore, su cui la sovrastruttura (manico - eventualmente con una tastiera separata - e cavigliere) è incollata e inchiodata.
Già nel '500 si distinguono due tipi di cassa: uno tondeggiante (lunghezza del guscio sino a 1,5 volte la larghezza massima) e uno allungata (la lunghezza del guscio più di 1,5 volte la lunghezza massima). In genere le casse tondeggianti hanno un guscio più rotondo (altezza o profondità più di 0,5 volte la larghezza massima), mentre quelle allungate hanno un guscio più piatto (altezza meno di 0,5 volte la larghezza massima).
Già all'inizio del secolo XVI sparisce lo zocchetto inferiore. All'estremità inferiore della cassa ci sono ormai due elementi di rinforzo: la controfascia interna, un'assicella sottile di conifera, e la controfascia esterna o calotta, una striscia generalmente piuttosto larga dello stesso legno di cui è fatto il guscio.
La tavola è di conifera, eventualmente con un filetto d'un legno duro lungo il bordo. Generalmente tagliata dalla tavola è un'unica rosetta, il più delle volte con base esagonale o cruciforme. (Alcuni liuti grandi possono avere tre rosette tagliate dalla tavola, come vedremo.) Generalmente la tavola continua per un breve tratto sull'estremità inferiore del manico, mentre da entrambi i lati della continuazione c'è un baffetto come continuazione del manico o della tastiera. La faccia interna della tavola ha un certo numero di catene e catenine. La tavola può essere divisa in nove, otto o cinque parti. Nel caso d'una divisione in nove ci sono sette catene, cioè (partendo dall'estremità inferiore della tavola) approssimativamente la catena 1 a 2/9, 2 a 3/9, 3 a 4/9, 4 a 5/9, 5 a 6/9, 6 a 7/9 e 7 a 8/9. La catena 4 attraversa il centro della rosetta, dove la tavola è dunque divisa nella proporzione 5 : 4. (Nella divisione in otto ci sono sei catene sistemate nella stessa maniera, attraversando la catena 4 il centro della rosetta, dove la tavola viene divisa nella proporzione 5 : 3; nella divisione in cinque ci sono otto catene, attraversando la catena 5 il centro della rosetta, dove la tavola è divisa nella proporzione 3:2.) Ci sono inoltre catenine e catene sul retro della rosetta come rinforzi di quest'ultima. All'estremità inferiore della tavola ci sono una catena curva dalla parte dei bassi, e due catenine poste a raggiera dalla parte dei soprani. Catene e catenine sono di conifera.
Lo spazio tra l'estremità inferiore della tavola e la catena 1 (quindi circa 2/9, 2/8 o 2/10 della lunghezza della tavola) è diviso in tre; partendo dall'estremità inferiore della tavola, il ponticello si trova a 2/3 di questo spazio. Al ponticello, generalmente di legno duro, con baffi ornamentali. vengono annodate le corde.
Il manico può avere una tastiera separata o meno; il davanti in questo periodo è sempre piatto. Manico (ed eventualmente tastiera) sono provvisti di legacci di minugia. Nella maggior parte dei casi il numero dei legacci è di 7, 8 o 9. Esistono proporzioni abbastanza precise per la lunghezza del manico, in rapporto alla distanza tra l'estremità superiore della tavola e il ponticello. (Quest'ultima distanza è chiamata misura della tavola.) La proporzione tra la lunghezza del manico e la misura della tavola è:
- 3/4 (0, 75) con nove legacci,
- 5/8 (0,625) con otto legacci,
- 1/2 (0,5) con sette legacci, o poco di più.
Il cavigliere è sempre piegato indietro con piroli laterali.
Le corde sono sempre di minugia. In questo periodo i liuti hanno (o avevano nello stato originale) 11 corde, disposte in 6 ordini (5 x 2 + 1, essendo la corda singola quella più alta, il cantino). L'accordatura contiene normalmente gl'intervalli seguenti dal basso in alto: quarta - quarta - terza maggiore - quarta - quarta, un'accordatura base che proviene dall'accordatura del liuto arabo medievale. Il liuto contralto ha normalmente l'accordatura Sol1 - Do2 - Fa2 - La2 - Re3 - Sol3.
Già in questo periodo incominicia ad emergere una famiglia dei liuti con membri di vari formati con fondamentali più o meno bassi. Sino al 1580 tale famiglia non ha ancora una parte molto importante, ma dopo il 1580 ottiene una importanza maggiore. Michael Praetorius nel 1619 distingue i membri seguenti [nome e accordatura / lunghezza vibrante delle corde / lunghezza tavola]:
L'accordatura in quarta - quarta - terza maggiore - quarta - quarta è possibile anche su Fa1 (- Sib1 - Mib2 - Sol2 - Do3 - Fa3), come c'insegna Vicenzo Galilei nel suo Fronimo (1584). È da supporre che strumenti con misure intermedie tra contralto (su Sol1) e tenore (su Mi1) siano da interpretare come strumenti su Fa1 (cfr. scheda 98).
Pochi autori e compositori italiani deviano dall'accordatura con gl'intervalli suddetti, proponendo un liuto scordato. Le scordature - soprattutto quella in Re minore (La1 - Re2 - Fa3 - La3 - Re4 - Fa4) - si adoperano, con poche eccezioni, solo in paesi d'oltralpe. La spiegazone di questo fenomeno è il fatto che il liuto in Italia perde una gran parte della sua popolarità dopo il 1670, ad ogni modo in confronto al resto dell'Europa. In Italia sino al secolo XVII si usa ancora il liuto all'ottava, per il quale è concepito probabilmente il concerto RV 540 di Vivaldi, e occasionalmente la tiorba per l'esecuzione del basso continuo. In Francia e in Germania il liuto mantiene la sua popolarità sino alla metà del secolo XVIII.
III. L'ultimo periodo di fioritura del liuto in Italia è dunque quello tra il 1580 e il 1650 (localmente sino al 1670). La maggior parte dei liuti di questa collezione fu fatta in questa epoca. Ci sono alcune differenze salienti in confronto al periodo anteriore. Il guscio è sempre composto di doghe, ma diminuisce la larghezza delle singole doghe e aumenta il loro numero. Il numero è sempre dispari, ma può oscillare, per quanto ne sappiamo, tra 23 e 45. Tipico per questo periodo è l'uso del tasso come legno per le doghe e per la calotta (inv. 2808, 1813, 1814, 1749, schede 96, 99, IOO, 103). Spesso, specie a Venezia e a Padova, la doga è tagliata in modo da essere bicolore a causa dell'impiego sia dell'alburno sia del durame, il che crea un effetto gradevole all'occhio (inv. 1753, 1808, 1748, schede 98, 101, 104). In questo periodo i liutai incominciano poi a usare legni esotici per il guscio (inv. 1754, scheda 102).
Ciò che abbiamo detto del periodo precedente riguardo alla tavola, alla rosetta, alla continuazione della tavola sul manico, alle catene, allo zocchetto, al manico con tastiera eventuale, ai legacci, al cavigliere e ai membri della famiglia vale in grandi linee anche per questo periodo. Ci sono alcune eccezioni, ad esempio il fatto che i liuti bassi possono avere tre rosette (inv. 1754).
Il fenomeno più importante di questo periodo è l'aumento del numero degli ordini con cui si realizza un aumento dell'ambito verso i bassi.
Già intorno al 1580 venivano costruiti liuti a 7 e 8 ordini. L'ordine 7 poteva fare una quarta con l'ordine 6, sicché, ad esempio, un liuto con un'accordatura base su Sol1 poteva avere l'accordatura Re1 - Solr Do2 - Fa2 - La2 - Re3 - Sol3 (quarta - quarta - quarta - terza maggiore - quarta - quarta). Il caso normale è, però, che gli ordini sotto l'accordatura base scendevano diatonicamente, sicché, ad esempio, un liuto contralto con 7 o 8 ordini era accordato: (Mi1 -) Fa1 - Sol1 - Do2 - Fa2 - La2 - Re3 - Sol3. Era sempre possibile adattare gli ordini aggiunti alla tonalità dell'opera da eseguire: Mi1 poteva essere accordato a Mib1, Fa1 a Fa#1 ecc. La prossima tappa fu la costruzione di liuti a 10 ordini con quattro ordini sistemati diatonicamente sotto gli ordini base. Un liuto contralto a 10 ordini aveva dunque l'accordatura Do1 - Re1 - Mi1 - Fa1 - Sol1 - Do2 - Fa2 - la2 - Re3 - Sol3, con la possibilità di cambiamenti cromatici negli ordini aggiunti sotto l'accordatura base.
Nella disposizione degli ordini delle corde subentrò una certa variazione. Sino al 1580 la disposizione fu quasi sempre in ordini doppi con l'eccezione della corda più alta (il cantino) che fu sempre singola. Nel periodo di cui parliamo era possibile un cantino singolo (inv. 1814), ma furono introdotti due varianti: una consisteva nel raddoppio di tutti gli ordini, incluso quello del cantino; nell'altra le due corde più alte erano singole, gli altri ordini doppi.
Come s'è già detto, nei liuti trattati sin qui il cavigliere è sempre piegato indietro. Questa disposizione era sfavorevole soprattutto per il cantino, la più sottile delle corde, che, anche a causa della piega acuta sul capotasto, si spaccava facilmente. Per evitare questo punto debole del cantino, molti liuti dall'inizio del '600 in poi hanno un cantino fissato con un pirolo laterale in una chiocciola sulla parete del cavigliere dal lato degli acuti, in modo che il cantino vi faccia un angolo molto ottuso sul capotasto e così diminuisca il rischio che si spacchi (inv. 1814).
Aumentando sempre di più il numero degli ordini, si arriva a liuti con 11 o 13. I liuti con 10, 11 o 13 ordini hanno a volte un guscio con un numero più ristretto di doghe (9, 11, 13), e una sagoma piuttosto arrotondata e meno piatta. Quando un liuto ha un gran numero di ordini - dunque di corde - tastabili, sarebbe difficile raggiungere soprattutto quelli nel mezzo su un manico piatto davanti o con una tastiera piatta. Liuti con un numero notevole di ordini tastabili hanno a volte il davanti del manico arrotondato o una tale tastiera.
Liuti con 11 o 13 ordini possono avere tutti i piroli in un unico cavigliere e tutti gli ordini tastabili. Tali liuti hanno spesso una chiocciola per il cantino, almeno se quest'ultimo è singolo, sulla parete del cavigliere dal lato degli acuti. In tal caso liuti con 13 ordini hanno inoltre una chiocciola per 2 ordini doppi (quelli più bassi), sulla parete del cavigliere dal lato dei bassi.
Ma già a partire da 11 ordini s'incominicia ad applicare al liuto un secondo cavigliere. (Sia detto tra parentesi che l'applicazione d'un secondo cavigliere e altre sistemazioni del genere non incominicia intorno al 1580, ma è documentata occasionalmente in Germania negli anni 1530 al più tardi. Non vogliamo complicare la storia del liuto in questa sede enumerando tutti gli esperimenti fatti in questo campo nel secolo XVI. Ad ogni modo, nel '500 l'applicazione d'un secondo cavigliere diventa più frequente e si standardizza sino a un certo punto. Trascuriamo qui anche il caso dei liuti in cui il secondo cavigliere può trovarsi accanto al primo, e i liuti che s'incontrano a volte nei paesi d'oltralpe con tre caviglieri.)
Seguendo un liuto standardizzato con due caviglieri, dal manico verso l'alto, s'incontrano il primo cavigliere, ora non più piegato indietro, ma formante una continuazione del manico; il pezzo che collega i due caviglieri, chiamato tratta; infine il secondo cavigliere. Gli ordini nel primo cavigliere si trovano sopra il manico (la tastiera) e possono essere raccorciati sui legacci (ordini tastabili). Gli ordini bassi nel secondo cavigliere si trovano accanto al manico (alla tastiera) e non possono essere raccorciati, ma solo pizzicati a vuoto. In italiano gli ordini nel secondo cavigliere sono chiamati "bordoni", il che è etimologicamente giusto (si trovano sul bordo, o al di là del bordo del manico), ma che sconcerta anche alquanto, dato che normalmente si usa "bordone" per un suono basso continuo come nelle cornamuse e nelle ghironde.
C'è un numero considerevole di sistemi di disposizione dei due caviglieri di cui non intendiamo parlare in questa sede. Menzioniamo solo le due sistemazioni più importanti.
1. La tratta tra i due caviglieri è un poco obliqua sì che il secondo cavigliere non si trovi in una stessa linea col manico, e sì che i bordoni siano situati sempre accanto al manico (alla tastiera). Il secondo cavigliere è piegato in avanti. Un caso tipico di questa costruzione è il 1748 di questa collezione. Una tale sistemazione s'incontra frequentemente in Italia.
2. La tratta tra i due caviglieri è costruita in forma di esse, sì che il secondo cavigliere si trovi su un altro piano rispetto al primo. Una tale sistemazione s'incontra frequentemente in Germania. Il 1755 di questa collezione ha una sovrastruttura non originale (del secolo XIX), in cui il falsificatore ha ovviamente cercato d'imitare la sistemazione tedesca.
Esistono vari tipi di liuti con due caviglieri:
A. I liuti normali con due caviglieri. Caratteristiche più comuni:
- lunghezza vibrante degli ordini tastabili tra 650 e 720; gli strumenti sono quindi da accordare sulla base del contralto (base Sol1) o del tenore (base Mi1), eventualmente anche sulla base Fa1;
- distanza ristretta tra i due caviglieri, tra 290 e 325;
- relazione tra la lunghezza vibrante degli ordini tastabili e quella dei bordoni di circa 1:1,45;
- generalmente 11 oppure 13 ordini, cioè 6 oppure 8 ordini tastabili e 5 ordini di bordoni;
- tutti gli ordini sono doppi.
I liuti col maggior numero di ordini di corde ne hanno 14 oppure 16. Tali liuti hanno sempre due caviglieri, e sono da distinguere in arciliuti o liuti attiorbati, e tiorbe.
B. Gli arciliuti o liuti attiorbati sono liuti, il che vuol dire che l'accordatura base di tali strumenti è la stessa di quella d'un liuto: quarta - quarta - terza maggiore - quarta - quarta. Sono da distinguere:
BI. arciliuti o liuti attiorbati con una tratta corta, dunque con una distanza ristretta tra i due caviglieri. Caratteristiche comuni:
- lunghezza vibrante degli ordini tastabili tra 550 e 650; gli strumenti sono quindi da accordare sulla base del soprano (base La1) o del contralto (base Sol1);
- distanza ristretta tra i due caviglieri, tra 260 e 290;
- relazione tra la lunghezza vibrante degli ordini tastabili e quella dei bordoni di circa 1:1,45;
- 7 ordini di corde tastabili e 7 ordini di bordoni;
- tutti gli ordini sono generalmente doppi.
B2. arciliuti o liuti attiorbati con una tratta lunga, dunque con una distanza notevole tra i due caviglieri (inv. 1749 e 1748).
Caratteristiche comuni:
- lunghezza vibrante degli ordini tastabili tra 630 e 720; gli strumenti sono quindi da accordare sulla base del contralto (base Sol1), del tenore (base Mi1), o eventualmente sulla base di Fa1;
- distanza notevole tra i due caviglieri, tra 755 e 870;
- relazione tra la lunghezza vibrante degli ordini tastabili e quella dei bordoni di circa 1:2,2;
- 6 ordini di corde tastabili e 8 bordoni;
- gli ordini tastabili sono doppi, i bordoni singoli.
È ovvio che il tipo B1 serve preferibilmente per le accordature più alte e il tipo B2 per quelle più basse.
C. Le tiorbe sono strumenti che non hanno più l'accordatura del liuto; in confronto a questa i due ordini più alti sono trasposti di un'ottava in basso. Gl'intervalli dell'accordatura base d'una tiorba sono quindi: quarta in alto - quarta in alto - terza maggiore in alto - quinta in basso - quarta in alto. Una tiorba con base Sol1 ha dunque l'accordatura: Sol1 - Do2 - Fa2 - La2 - Re2 - Sol2. Questo cambiamento è dovuto al fatto che la lunghezza vibrante degli ordini tastabili è più grande che negli altri liuti e arciliuti con tale base. Sono da distinguere:
C1. le tiorbe con una tratta corta, dunque con una distanza ristretta tra i due caviglieri. Caratteristiche comuni:
- lunghezza vibrante degli ordini tastabili tra 650 e 750, dei bordoni tra 940 e 1090;
- una distanza ristretta tra i due caviglieri, tra 290 e 340;
- una relazione tra la lunghezza vibrante degli ordini tastabili e quella dei bordoni di circa 1:1,45;
- sempre 8 corde o ordini tastabili e 8 bordoni;
- secondo il Praetorius (1619) che chiama questo strumento tiorba padovana ci sono 8 corde singole tastabili, ma negli strumenti conservati si trovano normalmente 8 ordini doppi tastabili; i bordoni sono sempre singoli.
Differenze tra gli strumenti dei gruppi A, B1 e C1: il numero delle corde (A: 6 x 2 o 8 x 2/5 x 2; B1: 7 x 2/7 x 2; Cl: 8 o 8 x 2/8); i bordoni (ed eventualmente anche gli ordini tastabili) singoli nel gruppo Cl, e l'accordatura. Gli strumenti del gruppo Cl sono accordati sulla base di Sol1, con una lunghezza vibrante degli ordini tastabili da 650 in su, mentre tale lunghezza vibrante nei liuti e arciliuti può essere utilizzata solo per accordature più basse.
C2. le tiorbe con una tratta lunga, dunque con una distanza notevole tra i due caviglieri. Caratteristiche comuni:
- lunghezza vibrante degli ordini tastabili tra 750 e 1000, quelle dei bordoni tra 1650 e 2200;
- una distanza notevole tra i due caviglieri (tra 900 e 1200);
- una relazione tra la lunghezza vibrante degli ordini tastabili e quella dei bordoni di circa 1:2,2;
- 6 corde o ordini tastabili e 8 bordoni;
- secondo il Praetorius (1619), che chiama questo strumento tiorba romana, ci sono 6 corde singole tastabili, ma negli strumenti conservati si trovano normalmente 6 ordini doppi tastabili; i bordoni sono sempre singoli.
La differenza principale tra gli strumenti dei gruppi B2 e C2 sta nelle misure. Mentre nel primo gruppo la lunghezza vibrante degli ordini tastabili raggiunge solo 720 mm, il che implica un'accordatura sulla base Mi1, questa lunghezza nel secondo gruppo può raggiungere i 750 mm, mentre secondo il Praetorius l'accordatura di tutte le tiorbe non ha mai una base più bassa di Sol1.
Soprattutto gli arciliuti e le tiorbe con una tratta lunga hanno spesso gusci multidoghe che tendono ad allungarsi e appiattirsi.
Nella letteratura s'incontra l'espressione tiorbino senza dettagli precisi. Forse si tratta d'una tiorba all'ottava superiore. Abbiamo visto che ci sono da un lato liuti con due caviglieri con una tratta corta tra di loro (260-340 mm) - liuti, arciliuti e tiorbe padovane - e dall'altro liuti con una tratta lunga tra i caviglieri (760-1200 mm) - arciliuti e tiorbe romane. È vero infatti che i liuti con una tratta lunga hanno alcune caratteristiche specifiche: gli 8 bordoni sono singoli ed erano generalmente di metallo, non di minugia, e nella tavola ci sono spesso tre rosette disposte a triangolo col vertice in alto (inv. 1749). Sembra che sia stato Antonio Naldi a ideare la tiorba romana a Firenze poco prima del 1586.
Il Praetorius nel 1619 introduce una nomenclatura alternativa per la tiorba romana chiamandola chitarrone. Questo nome s'incontra sino al 1650 (anche in Italia), dopo di che sparisce, benché liuti con la tratta lunga continuino a essere costruiti sino alla prima metà del secolo XVIII. L'uso presso il Praetorius ha indotto gli organologi, specialmente quelli di lingua tedesca, ad applicare l'espressione tiorba ai liuti con due caviglieri con la tratta corta, e il termine chitarrone a quelli con la tratta lunga. Questa pratica non è consigliabile. In primo luogo, la dicotomia tiorba/chitarrone nel senso di tratta corta/tratta lunga trascura la caratteristica messa in rilievo da vari autori riguardo alla tiorba, cioè la lunghezza vibrante eccessiva delle corde che implica l'accordatura all'ottava bassa dei due ordini più alti. In secondo luogo la dicotomia tiorba-chitarrone non corrisponde nemmeno al Praetorius, il quale annovera il chitarrone tra le tiorbe, chiamandolo tiorba romana. In terzo luogo ci sono anche liuti con una tratta media e una distanza tra i due caviglieri di circa 500 mm. Un esempio è un liuto di Wendelin Tieffenbrucker, Padova, 1611, nella Collezione di Strumenti Antichi del Kunsthistorisches Museum a Vienna (Schlosser, n. C 47). È impossibile far collocare questo strumento nella detta dicotomia tiorba-chitarrone. È vero che si tratta qui d'uno strumento piuttosto eccezionale che è anche impossibile far rientrare nel sistema abbozzato sopra. Quest'ultimo sistema, però, ha il vantaggio di far valere varie qualità del liuto (lunghezza vibrante delle corde, numero degli ordini tastabili e dei bordoni, sistemazione delle corde negli ordini). Il liuto di Wendelin Tieffenbrucker a Vienna ha 6 ordini doppi tastabili e 8 bordoni semplici, e una lunghezza vibrante degli ordini tastabili di circa 640 mm; si tratta quindi d'un arciliuto, eccezionalmente con una tratta media.
Con ogni probabilità l'espressione chitarrone fu creata per uno strumento come il 1745 di questa collezione, e fu poi erroneamente applicata alla tiorba romana. È dunque meglio riservare il termine chitarrone per tali strumenti in forma di "grande kithára" come il 1745.
IV. L'ultimo periodo della storia dei liuti (1650-1750) sino alla sua sparizione non ha luogo in Italia e non è rappresentato in questa collezione. Per la continuazione della storia rimandiamo il lettore a opere specializzate. Qui vogliamo ancora accennare ad alcuni dettagli che riguardano la storia del liuto in generale.
È sorprendente che la maggior parte dei liutai in Italia abbia nome e cognome tedeschi. È ancora più sorprendente che questi liutai provengano quasi tutti da una parte della Germania molto limitata: la regione intorno alla cittadina di Füssen nell'Allgäu, attualmente nella parte sudoccidentale della Baviera. Solo a Bologna s'incontrano Laux e Sigismund Maler, Hans Frei e Nicolaus Schönfeld. In questa collezione s'incontrano inoltre [nome e cognome tedeschi / nome e cognome italianizzati / luogo]:
Magnus Tieffenbrucker / Magno Dieffobruchar / Venezia
Octavius Schmidt? / Ottavio Smidt / Parma?
Michael Hartung / Michielle Harton / Padova
Magnus Steger / Magno Stegher / Venezia
Wendelin Tieffenbrucker / Wendelio Venere / Padova
Matthäus Seelos / Matteo Sellas / Venezia
Gli strumenti a corde pizzicate sono spesso firmati. Allora sulla faccia interna del guscio sotto la rosetta c'è un'etichetta stampata o manoscritta. Inoltre, in alcuni casi c'è un marchio a fuoco sull'estremità superiore della tavola o sulla calotta. Un tale marchio s'incontra in questa collezione in inv. 1753, 1808 e 1748.
Il liuto fu nel periodo trattato in questa introduzione - come gli strumenti a tastiera a corde pizzicate, e, s'intende, come l'organo -, uno degli strumenti più in voga. Lo strumento normale fu il liuto contralto, il che potrebbe spiegare la rarità degli strumenti conservati di questa categoria. I liuti più grandi non furono tanto popolari, ed è questa verosimilmente la ragione per cui è conservato un numero maggiore di liuti bassi.
Come i cembali e gli strumenti congeneri e come gli organi, anche i liuti sono spesso stati cambiati per adattarli alla pratica musicale di un'epoca successiva. Tali cambiamenti sono rilevabili anche in questa collezione. Purtroppo, però, i liuti di questa collezione sono stati in parte "restaurati" nell'Ottocento, quando molti dettagli della storia del liuto erano andati perduti. Questi "restauri" sono stati effettuati spesso in maniera assai maldestra.
Sommario sull'originalità delle parti dei liuti di questa collezione [numero / probabilmente originale / post, ma prima del sec. XIX / sec. XIX]:
2808 / cassa, ponticello, manico / --- / caviglieri e tratta (qualità cattiva)
1755 / guscio, tavola (in origine non insieme) / ponticello, manico / caviglieri e tratta (qualità cattiva)
1753 / cassa / ponticello, manico, cavigliere / ---
1813 / cassa, ponticello / --- / manico, cavigliere e tratta (qualità cattiva)
1814 / guscio, tavola (in origine non insieme) / ponticello, manico, cavigliere / ---
1808 / cassa, manico / ponticello, cavigliere / ---
1754 / cassa, ponticello, manico / cavigliere / ---
1749 / guscio, tavola con ponticello (in origine non insieme) / --- / caviglieri e tratta (qualità non cattiva)
1748 / cassa, ponticello, manico / cavigliere e tratta / ---
Michael Praetorius nel 1619 menziona un liuto attiorbato molto interessante che egli chiama testudo theorbata. La parola latina testudo (tartaruga) è l'espressione normale per il liuto durante il Rinascimento, sicché testudo theorbata non è altro che un liuto attiorbato o una tiorba, e di per sé non indica un tipo speciale di strumento musicale. Dato però che lo strumento illustrato dal Praetorius ha infatti alcune caratteristiche speciali, adoperiamo qui l'espressione latina per un tipo di strumento con tali caratteristiche.
La testudo theorbata dell'autore tedesco è una tiorba, le cui corde non sono attaccate al ponticello, ma all'estremità inferiore della cassa. Benché niente si sappia del ponticello, è possibile che questo non sia attaccato alla tavola, ma venga premuto contro questa dalla tensione delle corde che lo attraversano, e così fermato, come in un'epoca posteriore nella chitarra battente e nel mandolino napoletano, strumenti di cui parleremo in capitoli seguenti. Sia la chitarra battente sia il mandolino napoletano hanno una piega leggera nella tavola, dove si trova il ponticello. Nell'illustrazione del Praetorius questa piega non è indicata, e l'autore tedesco non ne parla. È possibile però che la testudo theorbata avesse una tavola con tale piega.
Nell'illustrazione del Praetorius non si vede nessun particolare riguardo ai tasti. Questi possono essere legacci di minugia, come nei liuti normali. È anche possibile, che qui siano anticipati i tasti inseriti di metallo degli strumenti che possono esser messi in relazione con la testudo theorbata, la chitarra battente e il mandolino napoletano. In tal caso sembra probabile che la testudo theorbata, come la chitarra battente e il mandolino napoletano, avesse corde metalliche.
Secondo il Praetorius la testudo theorbata è uno strumento simile a una tiorba con una distanza modesta tra i due caviglieri (290-340 mm), ma ha la disposizione delle corde come la tiorba con una distanza notevole tra questi (900-1200 mm), cioè 6 ordini doppi tastabili e 8 bordoni singoli. Dato questo rapporto tra testudo theorbata e tiorba, è verosimile che l'accordatura fosse sulla base di Sol1 - Do2 -Fa2 - La2 - Re2 - Sol2, quindi coi due ordini più alti trasposti di un'ottava in basso.
Le lire in senso generico formano una categoria separata entro il gruppo dei cordofoni. Le lire in senso generico sono composte d'una cassa, due braccia più o meno parallele e un giogo che collega le estremità superiori delle braccia. Le corde corrono parallele alla tavola e sono attaccate al giogo. Sino alla fine dell'antichità la regione in cui venivano usate lire di varie forme fu piuttosto ristretta: strumenti di questa categoria hanno i loro albori nell'Iraq attuale, dove sono documentate già nel quarto millennio avanti l'era volgare. Nei secoli seguenti lo strumento si estese all'Iran attuale, all'Egitto, agli Ebrei (il kinnor del re Davide non fu un'arpa, ma una lira), a Creta, ai Greci, Etruschi e Romani. Più tardi si trova in Siria e in Arabia, e ancora oggi sopravvive in Africa dalla Somalia, via Abissinia, sino all'Uganda.
Nei casi menzionati le lire di varie forme furono o sono strumenti a corde pizzicate. In Europa la storia della lira è assai strana. Come s'è già detto, nell'antichità lo strumento è documentato in Europa presso i Greci, gli Etruschi e i Romani. Nell'area di queste culture la lira sparisce all'inizio del Medioevo. Dopo questo periodo lire, anche di forme diverse che differiscono in dettagli dai modelli dell'antichità, s'incontrano solo a nord delle Alpi: una lira fu trovata in una tomba alemanna del secolo V, inoltre lo strumento fu suonato in Britannia, Irlanda (secolo VI), nelle regioni scandinave e nei paesi baltici. Dopo il primo millennio le lire non sono più pizzicate, ma strofinate con un archetto. Dopo la fine del Medioevo le lire ad archetto spariscono quasi ovunque. Gli ultimi baluardi dello strumento furono il Galles, dove il crwth sparì nel secolo XVIII, e l'Estonia, dove gli Svedesi che vi abitavano la suonavano sino alla loro espulsione, nel 1939.
Come s'è già detto, le parti della lira sono la cassa, le braccia e il giogo. Una vera lira non ha mai un manico ed eventualmente una tastiera. Nonostante ciò s'incontrano nel Medioevo raffigurazioni di lire con un manico. Le prime illustrazioni di tale strumento si trovano nel salterio di Utrecht realizzato intorno al 900. È possibile che in questo caso si tratti d'un ricorso a uno strumento dell'antichità tipico per il Rinascimento carolingio. Probabilmente l'artista non conosceva le lire ancora in uso nelle regioni marginali dell'Europa, non capiva come doveva funzionare una lira, e aggiunse un manico spontaneamente. È anche possibile che già all'epoca della realizzazione del salterio di Utrecht esistessero lire col manico. Ad ogni modo, le ultime lire superstiti, il crwth del Galles e la lira ad archetto dell'Estonia, avevano un manico. Con l'introduzione di questo elemento nacque un ibrido: una lira con un elemento preso dal liuto in senso generico. Geneticamente lo strumento è una lira, in cui è stato introdotto il manico come elemento del liuto.
Nel Rinascimento propriamente detto ci fu un ricorso all'antichità molto più intensivo che nel Rinascimento carolingio. Tale archeologia di strumenti musicali - spesso fantasiosa e con interpretazioni sbagliate - la troviamo ad esempio in opere pittoriche di Filippino Lippi, Piero di Cosimo, Lorenzo Costa e persino Raffaello (Parnaso nella Stanza della Segnatura in Vaticano) (Winternitz 1952-1954, 1956 e 1965). Inoltre, furono costruiti strumenti con dettagli di strumenti dell'antichità in certi casi forse interpretati in maniera sbagliata. A questo proposito si può pensare a due strumenti simili tra loro in quasi tutti i dettagli. Uno di questi strumenti si trova nella Collezione di Strumenti Musicali del Kunsthistorisches Museum a Vienna (Schlosser 1920, pp. 61-62, n. 66), l'altro è lo strumento del Museo Civico Medievale di Bologna, descritto sotto. Lo strumento di Vienna proviene dalla collezione dell'arciduca Ferdinando del Tirolo (morto nel 1596) ad Ambras presso Innsbruck. Riguardo a questo strumento, già lo Schlosser, e dopo di lui il Winternitz (1956) formularono l'ipotesi che si tratti d'un oggetto di attrezzeria teatrale per rappresentazioni o intermedi del tardo Rinascimento. Questa ipotesi sembra verosimile, e può valere anche per lo strumento di Bologna.
Come abbiamo visto, la tiorba romana fu creata probabilmente da Antonio Naldi a Firenze poco prima del 1586. Intorno allo stesso periodo furono creati i due strumenti di Vienna e di Bologna, entrambi con sei corde tastabili e otto bordoni. La somiglianza con la tiorba romana è evidente: quest'ultima poteva anche avere sei corde singole tastabili e otto bordoni pure singoli. Le dimensioni degli strumenti di Vienna e di Bologna sono tali che a essi si potrebbe applicare la stessa accordatura della tiorba romana.
Questi due strumenti hanno dunque - indubbiamente nell'ambito dell'archeologia musicale - elementi d'una lira o kitáhra dell'antichità: sulla cassa si trovano due braccia e una specie di giogo, che formano, però, un insieme piuttosto basso, molto più basso che nella lira o nella kithára antica. Tra le braccia c'è una lista che è continuata come manico con due caviglieri. Essenzialmente si tratta dunque d'una specie di liuto (d'una tiorba romana), a cui sono stati applicati elementi della kitáhra. Questa genesi è dunque opposta a quella delle lire col manico, queste ultime essenzialmente lire in senso generico, a cui è applicato un elemento del liuto (il manico). Negli strumenti di Vienna e di Bologna il manico ha tasti di metallo, dal che si può concludere che i due strumenti avevano sempre corde di metallo.
Gli strumenti di Vienna e di Bologna sembrano kithárai grandi. È probabile che in origine a questi strumenti fosse dato il nome di chitarrone, una kithára grande. La disposizione delle corde e l'accordatura di questi strumenti sono molto simili alla tiorba romana e furono forse prese da essa. Così potè succedere che il termine chitarrone fosse trasferito alla tiorba romana (Praetorius, 1619; Piccinini, Bologna, 1623). Fu soprattutto tramite Praetorius che il termine chitarrone, specialmente nella letteratura tedesca, fu applicato alla tiorba romana. Per evitare confusione, e anche perché il termine chitarrone non fu più usato dopo il 1650, mentre le tiorbe romane vengono costruite ancora nella prima metà del secolo XVIII, è meglio non usarlo per la tiorba romana, ma solo per il tipo di strumento, di cui sono conservati gli esemplari di Vienna e di Bologna.
I mandolini del vecchio tipo nell'ultimo stadio della loro esistenza non differiscono molto dai liuti in senso specifico. Dall'origine sino al secolo XVII i due tipi differiscono in numerosi dettagli.
Il mandolino del vecchio tipo ha la sua origine, come il liuto in senso specifico, nei territori di cultura islamica. L'antenato è uno strumento arabo assai piccolo con quattro corde, chiamato qopûz, introdotto in Ispagna già con le prime invasioni arabe nel sesto secolo, quindi già prima del liuto in senso specifico. Già all'inizio del secolo XIV lo strumento è noto in Germania sotto il nome kobus, ma nel Medioevo il nome normale nell'Europa occidentale e centrale - anche in Italia - è chitarra o chitarrino, un'espressione che quindi non significa la chitarra moderna. Johannes Tinctoris nel trattato De usu et inventione musicae (Napoli, circa 1484) dice esplicitamente che la ghiterra o ghiterna ha forma tonda, di tartaruga (formam testudineam).
La ghiterna aveva inizialmente una cassa piriforme scavata, fatta in un pezzo col manico senza legacci, un cavigliere in forma di falce con piroli laterali, una tavola di conifera senza rosetta, e corde attaccate all'estremità inferiore della cassa. Lo strumento era sempre pizzicato con un plettro. Per quanto sia possibile stabilire il numero delle corde, esso ammonta generalmente a quattro. È probabile che a partire dal secolo XV il principio degli ordini doppi sia stato adottato a volte dal liuto in senso specifico. Una ghiterna di Hans Ott, Norimberga, circa 1450, nelle collezioni sul Wartburg presso Eisenach (Turingia) dimostra che già nel '400 sono noti strumenti di questo tipo con cinque ordini doppi (5 x 2 corde).
Leonello d'Este, duca di Ferrara dal 1441 al 1450, suonava il "chitarrino", ed ebbe ai suoi servigi Leonardo del Chitarino e Pietro Bono de Burzellis, anche detto "del Chitarino".
La storia della ghiterna è in seguito quella dell'adozione di elementi del liuto. Già la ghiterna di Hans Ott ha una rosetta nella tavola, dal '400 in poi elemento essenziale anche di questo tipo di strumento. Altri elementi del liuto adottati dalla ghiterna nel tardo Medioevo sono poi l'attacco delle corde al ponticello e l'uso di legacci. È inoltre interessante che Johannes Tinctoris, già citato, intorno al 1484 menziona per l'Italia un'accordatura simile a quella del liuto, con la quale viene introdotto un altro elemento di assimilazione a quest'ultimo. L'accordatura sarebbe quella con gli intervalli quarta - terza maggiore - quarta, ad esempio Re3 - Sol3 - Si3 - Mi4. Fuori dell'Italia questa accordatura "liutistica" non era ancora applicata.
Nel secolo XVI e nel primo terzo del XVII l'assimilazione della ghiterna al liuto continua. La transizione della cassa in una linea curva tra cassa e manico, che suggerisce la fattura di cassa e manico in un solo pezzo di legno e la scavatura della cassa, s'incontra ancora sino alla prima metà del '600. Intanto, però, già dal secolo XVI sono conservati strumenti di questo tipo con un manico separato, con un angolo tra cassa e manico, e con un guscio che consta di doghe, come nel liuto. Il numero delle corde può variare tra quattro corde semplici e quattro o anche cinque ordini doppi. L'accordatura fuori dell'Italia non ha ancora niente a che fare con quella del liuto: generalmente s'incontrano accordature in quinte e quarte come ad esempio Do3 - Sol3 - Do4 - Sol4. Del materiale delle corde non si sa niente per il Medioevo. Sembra, però, che dal '500 in poi le corde fossero generalmente di minugia, in ogni caso in Italia. Forse il materiale delle corde è anche un elemento di assimilazione al liuto. In Francia e in Germania sono documentate a volte corde di metallo.
Un elemento in cui la ghiterna e il liuto differiscono sino all'inizio del secolo XIX consiste nelle proporzioni della cassa. Ci sono strumenti medi con una cassa larga approssimativamente 0,5 volte la lunghezza (si veda inv. 1809, scheda 107), strumenti stretti con una cassa con una larghezza di meno di 0,5 volte la lunghezza, e strumenti tozzi con una larghezza tra 2/3 e 4/5 della lunghezza (si veda inv. 1822, scheda 108).
Un altro elemento di differenza tra la ghiterna e il liuto consiste nel fatto che sino al 1630 all'incirca la ghiterna era pizzicata con un plettro. S'intende che c'è una differenza sonora tra il pizzicare con un plettro e con le dita, benché il divario fosse più limitato che oggi. Non erano ancora usati i plettri duri di tartaruga di oggi, introdotti non prima del secolo XIX. Sino a quest'ultima epoca i plettri erano di materiale più morbido: di penna d'uccello (corvo, struzzo) o di corteccia di ciliegio.
Intorno al 1630 lo strumento si avvicinò ancora di più al liuto. Il numero delle corde o degli ordini doppi adesso ammonta spesso a sei. (Sino al 1800 all'incirca s'incontrano ancora strumenti di questo tipo con sei corde singole!) Sparisce poi, anche fuori dell'Italia, l'accordatura in quinte e quarte e viene adottata dappertutto un'accordatura analoga a quella del liuto, in quarte con una terza maggiore. In vari paesi s'incontrano diverse varianti; in Italia l'accordatura più frequente è (Sol2 - Si2) - Mi3 - La3 - Re4 - Sol4. Infine, dopo il 1630, lo strumento è generalmente pizzicato senza plettro, direttamente con le dita, benché alcuni strumenti risalenti sino alla fine del secolo XVIII abbiano sulla tavola un piatto protettore, il che suggerisce l'uso d'un plettro.
Ci sono ancora differenze tra questo tipo di strumento e il liuto. In primo luogo, lo strumento sino al secolo XVIII ha sempre un formato piccolo, corrispondente più o meno a quello del liuto soprano. In secondo luogo, le proporzioni della cassa sono più variabili di quelle del liuto: fino al secolo XIX s'incontrano strumenti con casse strette, medie e tozze. Il formato della cassa è un elemento di differenza che per lo meno nei paesi di lingua tedesca va pure scomparendo nel secolo XVIII: allora a nord delle Alpi vengono costruiti anche strumenti col formato del liuto con otto ordini doppi, chiamati mandora.
In terzo luogo questo strumento ha un numero più ridotto di ordini del liuto: il numero non supera i sei, e non viene applicato a questo tipo il secondo cavigliere del liuto. L'elemento più tenace di questo tipo è, però, il cavigliere che ha generalmente la forma di falce, comunque grosso modo non prende la forma piegata indietro del liuto.
Un dettaglio interessante è che a volte lo strumento può avere invece d'un tale cavigliere la paletta piatta con piroli posteriori della chitarra. Tale paletta veniva già usata nel secolo XVII, e anche Stradivari ideò una variante dello strumento con la paletta piatta. Questa forma è, però, piuttosto rara, ma può avere avuto influenza sulla nascita del mandolino napoletano.
Lo strumento, di cui abbiamo parlato qui, è anche meno standardizzato del liuto. Già verso la fine del secolo XVII s'incontrano strumenti con manici con tasti inseriti di metallo o di avorio invece di legacci. Nel caso di tasti di metallo si potrebbe pensare anche a corde di metallo. Approssimativamente dal 1750 in poi manca a volte la rosetta, e lo strumento ha un foro rotondo di risonanza, forse per influsso di certi mandolini napoletani. Infine, nel secolo XIX ci sono strumenti con la tastiera continuata sopra la tavola sino al foro di risonanza, come nei mandolini napoletani e nelle chitarre coeve.
Dal secolo XVII lo strumento in questione aveva vari nomi: mandora, mandore, Mandörchen, pandora, pandurina, mando(l)la, mandolino. S'intende che questo mandolino differisce in vari dettagli dal mandolino napoletano creato posteriormente: non ha il guscio molto profondo, ha generalmente un cavigliere in forma di falce con piroli laterali, può avere più di quattro ordini, accordati in quarte, eventualmente con una terza maggiore, ha corde attaccate al ponticello, e soprattutto ha corde il più delle volte di minugia, pizzicate direttamente con le dita. (Strumenti con corde di metallo pizzicate con un plettro sono piuttosto rari.) E' questo tipo di mandolino, e non il mandolino napoletano moderno con corde sempre di metallo, pizzicate con un plettro duro di tartaruga, che intendevano compositori come Vivaldi nella Juditha triumphans e nei concerti per mandolino, vari compositori di opere viennesi del '700, ed Händel nell'Alexander Balus (1748).
Il mandolino del vecchio tipo è sopravvissuto come mandolino milanese o mandolino lombardo. Una variante ideata intorno al 1800 è il mandolino cremonese o bresciano con quattro corde di minugia con l'accordo del mandolino napoletano (Sol2 - Re3 - La3 - Mi4) e pizzicato con un plettro. L'accordatura in quarte con una terza maggiore - un'ottava sopra quella della chitarra, quindi Mi2 - La2 - Re3 - Sol3 - Si3 - Mi4, sopravvive nel mandolino genovese, già documentato intorno al 1770, che, a prescindere dai sei ordini doppi, è identico al mandolino napoletano.
La chitarra è uno strumento in uso ancora oggi. La sua definizione dovrebbe essere semplice, ma in realtà non lo è a causa della perdita o dello scemare delle caratteristiche, andando indietro nel tempo. Gli elementi caratteristici e la tecnica costruttiva sono cambiati assai nel corso dei secoli. Fatto è che dal secolo XVI la chitarra ha le caratteristiche seguenti: cassa sciancrata come quella delle viole, ma senza angoli; tavola piatta, fasce e fondo generalmente piatti; zocchetti superiore e inferiore nella cassa; manico separato fissato alla cassa; corde di minugia fissate da un lato a piroli posteriori in una paletta piatta, dall'altro al ponticello; tastiera prima con legacci di minugia, più tardi con tasti inseriti di legno, osso, avorio o metallo. In origine - sino alla fine del secolo XVIII - c'è sempre una rosetta rotonda, nei secoli XIX e XX c'è solo un foro di risonanza rotondo.
Nella chitarra ci sono state differenziazioni prima nel secolo XVI e nella prima metà del XVII, poi di nuovo intorno al 1800. Non vogliamo parlare di tutte le differenziazioni, ma solo della chitarra normale e di una variante rinascimentale, poi di una variante del secolo XIX.
La storia della chitarra non è stata definitivamente chiarita, e non è nemmeno possibile additare un antenato della chitarra, come lo è per il liuto e il mandolino del vecchio tipo. Ad ogni modo sembra impossibile stabilire l'origine della chitarra in uno strumento arabo, benché sia infatti in Spagna che s'incontrano per la prima volta strumenti che possono essere qualificati come chitarre.
Nei secoli XIII e XIV tali strumenti sono ancora molto variabili. La sciancratura della cassa - inizialmente più debole di quella della chitarra attuale -, i due fori di risonanza in forma di mezza luna nella tavola, l'attacco delle corde - eventualmente tramite una cordiera - all'estremità inferiore della cassa, sono elementi che possono essere stati presi dalla viola medievale. S'incontrano varie forme di cavigliere: nell'iconografia si vedono caviglieri piegati indietro come nel liuto, o in forma di falce, come nella ghiterna, in entrambi i casi con piroli laterali. Con l'andare dei secoli divenne sempre più frequente la paletta con piroli posteriori della viola medievale.
Allo stesso tempo ebbero lentamente il sopravvento certi elementi del liuto: un'unica rosetta nella tavola; manico provvisto di legacci; corde attaccate al ponticello senza cordiera; quattro corde o ordini doppi; accordatura in quarte con una terza maggiore.
Nel secolo XIV l'arciprete Juan Ruiz de Hita nel suo Libro de buen Amor fa la distinzione tra la guitarra ladina e la guitarra morisca de las voces aguda. Ovviamente quest'ultimo è uno strumento a pizzico usato dai "mori", forse con un'accordatura più alta, forse (anche) con un timbro stridente, ambedue appena riferibili alla chitarra. Forse l'arciprete pensava al qopuz arabo, chiamato anche ghiterra o ghiterna. L'altra "guitarra" invece, probabilmente uno strumento appartenente alla categoria delle chitarre, è chiamata esplicitamente ladina.
Nel secolo XVI la chitarra diventa più standardizzata con una cassa sciancrata, con fondo, fasce e tavola piatti, con una unica rosetta rotonda, con un manico provvisto di legacci (in casi eccezionali con tasti inseriti di legno, osso, avorio o metallo), con corde di minugia fissate da un lato a piroli posteriori in una paletta piatta, dall'altra al ponticello. Sino al 1560 il numero delle corde o degli ordini ammonta spesso a quattro, con un'accordatura simile a quella del liuto: Do2 - Fa3 - La2 - Re3. Nell'ultimo terzo del secolo XVI viene introdotta una quinta corda (o un quinto ordine); allora l'accordatura diviene Sol1- Do2 - Fa2 - La2 - Re3, oppure La1 - Re2 - Sol2 - Si2 - Mi3. Queste accordature sono quelle usuali della chitarra sino alla fine del secolo XVIII, a prescindere dalla chitarra a quattro ordini, la quale è usata soprattutto in Francia sino alla prima metà del secolo XVII. Ci sono alcune varianti da menzionare. In primo luogo, in Spagna c'è nel '500 e all'inizio del '600 una variante che ci rammenta quale sia stato l'influsso medievale della viola sulla chitarra, essendole conferito anche il nome della viola. Si tratta della vihuela, che poteva essere pizzicata con un plettro (vihuela de peñola) o con la mano (vihuela de mano). (La viola con corde strofinate con un archetto si chiamava vihuela de arco.) Lo strumento può avere cinque, sei o sette ordini di corde. Con sei l'accordatura era come quella del liuto contralto: Sol1 - Do2 - Fa2 - La2 - Re3 - Sol3. La tavola può avere, oltre alla rosetta normale, ancora altre rosette.
In secondo luogo ci sono nel secolo XVII e nella prima metà del XVIII chitarre con un fondo bombato e con fasce e fondo composti di doghe. Le differenze con la chitarra battente sono: le fasce non sono molto alte; la tavola non ha piega; il ponticello è attaccato alla tavola; le corde di minugia sono attaccate al ponticello. Intorno al 1770 la chitarra ebbe sei ordini di corde, poi il principio degli ordini fu abbandonato e la chitarra ebbe sei corde singole, accordate Mi1 - La1 - Re2 - Sol2 - Si2 - Mi3, ancora oggi l'accordatura normale della chitarra.
Una variante della chitarra, la chitarra battente, si sviluppò in Italia, Istria e Dalmazia forse già nel secolo XVII. La cassa ha la sagoma della chitarra normale, il fondo è bombato, fondo e fasce sono composti di doghe, le fasce sono assai alte (tra 130 e 180 mm), la tavola ha una piega, sotto la piega c'è una catena, sulla piega si trova il ponticello non attaccato alla tavola, le corde sono di metallo e attaccate all'estremità inferiore della cassa. Molto spesso il manico ha tasti inseriti di avorio, osso o metallo. Frequentemente c'è un piatto protettore sulla tavola indicante che lo strumento fu suonato con un plettro. La chitarra battente ha la rosetta e la paletta con piroli posteriori della chitarra. L'attacco delle corde all'estremità inferiore della cassa, e forse anche la tavola con una piega, il ponticello non attaccato alla tavola, i tasti inseriti nella tastiera e le corde di metallo, rammentano la testudo theorbata descritta sopra. È possibile che quest'ultima sia un predecessore della chitarra battente. La vihuela spagnola fu chiaramente uno strumento di musica colta, e lo è a volte anche la chitarra nei secoli XIX e XX. Normalmente la chitarra sino al 1800 è uno strumento piuttosto per la musica popolare, leggera e semileggera, e la chitarra battente è sempre stato uno strumento usato nella musica popolare.
Il 1827 di questa collezione (scheda 109) contiene parti d'una chitarra battente, usate per farne una chitarra normale.
Abbiamo visto che prima nel Rinascimento carolingio, poi con maggiore frequenza nel Rinascimento propriamente detto, un fattore del ricorso a strumenti musicali dell'antichità fu l'applicazione di elementi della lira antica (braccia, giogo) ai liuti in senso generico. Un altro periodo in cui si fece ricorso a elementi dell'antichità fu quello che va dal 1785 all'incirca sino a poco dopo l'età napoleonica.
Fu proprio in quest'ultimo periodo, quello dello stile Impero, che si applicarono le braccia ed eventualmente il giogo della lira alla chitarra a sei corde singole. Anche in questo caso rimangono il manico con la tastiera e la paletta con piroli posteriori della chitarra normale che distinguono la lira chitarra dalla lira vera.
Nella maggior parte dei casi la lira chitarra è simmetrica, ma il 1804 di questa collezione (scheda 110) ha il braccio sinistro più corto di quello destro. Il braccio sinistro è collegato al giogo con una colonna, con cui viene introdotto un elemento dell'arpa, come succede d'altronde in certe varianti inglesi contemporanee della chitarra, che non vogliamo trattare in questa sede.
Il mandolino del nuovo tipo - il mandolino che è usato ancora oggi nella pratica musicale - nacque a Napoli e differisce in numerosi elementi dal mandolino del vecchio tipo. La cassa ha un guscio che è più profondo di quello del mandolino del vecchio tipo: la profondità della cassa può aumentare a 0,75 della sua larghezza massima. Dalla chitarra battente il mandolino napoletano ha ripreso la paletta con piroli posteriori, le corde attaccate all'estremità inferiore della cassa e la tavola con una piega circa ad un terzo della lunghezza della cassa, calcolando dall'estremità inferiore. Sotto la piega c'è una catena di conifera, sulla piega si trova il ponticello non incollato alla tavola. Forse con l'influsso della chitarra battente si spiegano i tasti di osso, avorio o metallo inseriti nella tastiera (il mandolino napoletano non ha in genere legacci di minugia) e il pizzicare delle corde con un plettro: il più delle volte c'è un piatto protettore sulla tavola, per evitare che questa subisca danni dal plettro. Il mandolino napoletano ha quattro ordini doppi di corde di metallo accordati come le corde del violino: Sol2 - Re3 - La3 - Mi4. Già intorno al 1765 ci sono strumenti con la tastiera continuata sopra la tavola sino al foro di risonanza. Abbiamo enumerato sopra le differenze tra i due tipi di mandolino come se la distinzione tra i due strumenti fosse spiccata già dall'inizio. In verità ci sono, però, strumenti transitori. Il mandolino del vecchio tipo può avere nel '700 tasti di osso, avorio o metallo inseriti nella tastiera, e - benché raramente - una paletta con piroli posteriori. D'altra parte, i primi mandolini napoletani hanno ancora una rosetta e possono avere corde di minugia o di seta. Il foro di risonanza senza rosetta diventa d'uso generale nell'ultimo quarto del secolo XVIII, le corde di metallo diventano d'uso generale intorno al 1800. La differenza del timbro tra i due tipi di mandolino non fu dunque così spiccata come oggi, anche se il mandolino del vecchio tipo fosse pizzicato senza plettro e quello napoletano col plettro. Non si dimentichi che i plettri sino al 1800 erano di penna d'uccello o di corteccia di ciliegio, quindi ben più morbidi dei plettri duri di tartaruga che divennero usuali nel secolo XIX. Fu dunque solo nell'Ottocento che si standardizzò il mandolino napoletano, come lo conosciamo noi, col foro di risonanza senza rosetta, con corde di metallo e col plettro duro.
Che il cambiamento dal vecchio tipo a quello napoletano non venisse ex abrupto, risulta pure dai tipi misti, a cui accennammo già nell'introduzione al mandolino del vecchio tipo. Tali tipi misti sono il mandolino cremonese o bresciano, un mandolino del vecchio tipo con l'accordatura e il plettro del mandolino napoletano, e il mandolino genovese, un mandolino napoletano con sei cori doppi suonanti in una variante dell'accordatura del mandolino milanese o lombardo.
Quando si trova l'indicazione "mandolino" nella musica della seconda metà del secolo XVIII e all'inizio del XIX, rimane sempre incerto quale tipo di mandolino il compositore intendesse. Ad ogni modo, l'indicazione "mandolino" prima del 1740 si riferisce sempre allo strumento del vecchio tipo (ad esempio nelle opere con "mandolino" di Vivaldi, suonate oggi sempre con un mandolino napoletano). Dalla metà del secolo XVIII all'inizio del XIX la situazione rimane incerta, mentre "mandolino" nella maggior parte del secolo XIX e nel nostro secolo significa sempre mandolino napoletano.
Il mandolino napoletano porta questo nome perché fu sviluppato dal 1740 soprattutto da due famiglie napoletane di liutai: i Vinaccia e i Fabricatore. Fuori d'Italia lo strumento fu adottato a partire dal 1760 soprattutto in Francia e in Inghilterra. La penetrazione nel resto dell'Europa ebbe luogo più lentamente, ad esempio nell'impero asburgico (Vienna, Praga) negli anni 1780.
Già negli anni 1740 i costruttori napoletani incominciarono a costruire strumenti del tipo napoletano, ma in formati più grandi e con accordature più basse (mandole, mandoloni).
Le prime cetere che conosciamo hanno una cassa che sembra essere composta di fondo, fasce e tavola. In verità, però, il fondo con le fasce, insieme col manico, sono ricavati da un pezzo di legno duro, dopo di che sulla cassa cosi scavata viene incollata la tavola di conifera. La forma della cassa ricorda vagamente la chitarra, ma ci sono tre differenze principali. In primo luogo la sagoma è ovaloide o piriforme senza sciancratura. In secondo luogo è caratteristico che l'altezza delle "fasce" si restringe dal manico sino all'estremità inferiore della cassa. In terzo luogo il "fondo" ha spesso una superficie minore della tavola, sicché le "fasce" sono oblique rispetto al "fondo" e alla tavola. Ricorda la chitarra anche la rosetta nella tavola. Dall'altro canto, certi elementi differiscono dagli elementi corrispondenti della chitarra. Il manico, come s'è già detto, è ricavato dallo stesso pezzo di legno duro del "fondo", e delle "fasce". Il manico è molto stretto e forma una specie di listello sotto la tastiera più larga che è incollata separatamente sul manico. I tasti nella tastiera sono sempre di metallo; non ci sono mai legacci di minugia. Ci sono poi generalmente quattro ordini di corde, la cui accordatura probabilmente già all'inizio non corrispondeva a quella della chitarra.
La cetera ha altri elementi che differiscono pure da quelli corrispondenti della chitarra, ma che fanno pensare alla viola medievale: il cavigliere con piroli frontali; il ponticello non incollato alla tavola; l'attacco delle corde - sempre di metallo - all'estremità inferiore della cassa, benché senza cordiera.
I tasti di metallo, le corde metalliche, il ponticello staccato dalla tavola e l'attacco delle corde all'estremità inferiore della cassa fanno pensare alla testudo theorbata, alla chitarra battente e al mandolino napoletano. Forse questi quattro strumenti costituiscono una linea diretta, benché non ci sia nessuna prova della continuità.
Certi elementi della cetera ricordano la chitarra, mentre altri elementi fanno pensare alla viola medievale. Un dettaglio interessante è che in molti casi è montato vicino al manico da entrambi i lati di questo un ornamento che ricorda un avanzo del braccio della lira o della kithára greca, ragione per cui alcuni storici derivano la cetera dalla kithára. La difficoltà che incontra questa ipotesi è che mancano i membri intermedi.
La cetera appare nella forma sopra descritta in Italia nel secolo XV. Nel secolo XVI e nella prima metà del XVII la cetera non subisce grandi cambiamenti. In questa epoca ci sono già strumenti con una cassa composta di fondo, fasce e tavola separati. Spesso la tastiera viene continuata sopra la tavola quasi sino alla rosetta. Nella tastiera ci sono sempre tasti metallici che, però, non sono disposti per una scala cromatica intera per tutti gli ordini. Il cavigliere prende spesso la forma di falce della ghiterna, e può essere coronato da una figura umana scolpita, oppure da una terminazione quadrata o in forma di scudo. In molti casi i piroli sono spartiti in tre file: una fila centrale contiene piroli frontali, e da entrambi i lati di questa c'è una fila di piroli inseriti obliquamente. Il numero di corde in un ordine può aumentare a tre. La maggior parte delle cetere ha quattro ordini di corde (Si2 - Sol2 - Re3 - Mi3, oppure La2 - Sol2 - Re3 - Mi3), alcune ne hanno cinque o sei con un'accordatura che contiene sempre una di queste due accordature come nucleo centrale. Cetere con un secondo cavigliere (come nei liuti attiorbati e le tiorbe) sono piuttosto rare in questo periodo.
La cetera di questa collezione descritta sotto appartiene a questa epoca.
Nella seconda metà del secolo XVII e nel XVIII la cassa della cetera consta sempre di fondo, fasce e tavola separati; spariscono a poco a poco l'obliquità e il restringimento delle fasce; s'incontrano variazioni nella sagoma della cassa; il manico è sempre separato, sovrapposto allo zocchetto superiore, e prende la stessa larghezza della tastiera; il cavigliere ha sempre la forma di falce con una testa o una terminazione quadrata o in forma di scudo, e i tasti sono ormai disposti per una scala cromatica intera per tutti gli ordini. Ci sono sempre cinque o sei ordini di corde, spesso accordati a una triade (ad esempio Do3 - Mi3 - Sol3 - Do4 - Mi4 - Sol4). Lo strumento ebbe l'apogeo in Inghilterra nella seconda metà del '700, quando vi furono applicati anche un sistema per facilitare l'accordatura e un sistema di martelletti, con cui le corde erano percosse invece che pizzicate. Il tipo inglese fu chiamato English guitar. Ci sono poche menzioni di cetere con due caviglieri sino alla seconda metà del secolo XVIII, quando tali strumenti furono costruiti sia a Parigi, sia a Norimberga.
La cetera era sempre uno strumento per la musica leggera o popolare. Lo strumento continua ad essere ancora oggi usato per la musica popolare in certe regioni della Germania e della Svizzera.
Ci sono vari metodi per far vibrare, e dunque suonare, una corda. Abbiamo trattato il pizzico (applicato ai liuti in senso generico del gruppo precedente: liuti nel senso specifico, mandolini, chitarre, chitarre battenti, cetere e alcuni altri - e a molte cetre in senso generico, e anche, come vedremo, alle arpe), e la percussione (applicata al tambourin du Béarn o altobasso e ai salteri con cassa in forma di trapezio isoscele nei paesi europei a nord delle Alpi e dei Pirenei). Abbiamo anche trattato la generazione della vibrazione e dunque del suono per mezzo del vento (arpe eolie).
Per inciso abbiamo menzionato anche l'applicazione dello strofinamento delle corde in certe cetre in senso specifico. Ora, nel gruppo dei liuti in senso generico si sono sviluppati vari tipi di cordofoni fatti suonare con lo strofinamento. Ci sono due mezzi per generare una vibrazione e quindi un suono per mezzo dello strofinamento. Il primo metodo consiste nel fregare le corde con una treccia di peli, generalmente crini di cavallo, a cui viene applicata una resina, usualmente la colofonia. Con poche eccezioni i crini di cavallo sono tesi in un archetto. Il secondo metodo consiste nel fregare le corde con una ruota, a cui viene applicata pure una resina, anche qui usualmente la colofonia.
Mentre il pizzico e la percussione sono metodi antichi per generare la vibrazione e quindi il suono in una corda - talmente antichi che la loro origine non è databile -, lo strofinamento per mezzo d'un archetto è un metodo assai recente e approssimativamente databile. Non ci sono prove che l'archetto esistesse prima del secolo X dell'era volgare. La genesi dell'archetto è poi localizzabile nell'Asia centrale vicino alla via della seta nell'impero dei Qarakhanidi, dove vivono molte tribù nomadi con abbondanza di cavalli, dalle cui code si prendono i crini degli archetti. Di là, l'archetto si diffuse prima verso l'Occidente - già nel secolo X ci sono documenti in maggior parte iconografici che testimoniano l'uso dell'archetto nell'impero bizantino, da dove esso si propagò per il resto dell'Europa -, poi verso sudovest - dove le regioni di cultura islamica adottarono e applicarono l'archetto, dopo di che queste regioni tramandarono l'archetto anche all'Europa -, infine verso l'oriente, dove si usano strumenti ad archetto, oltre che nell'Iran, in India, nel Tibet, in Mongolia, Cina, Corea, Giappone, nell'Asia sudorientale e in certe isole dell'Indonesia.
L'archetto fu quindi introdotto in Europa per due strade: dall'Asia centrale attraverso l'impero bizantino, e dalle regioni di cultura islamica. Non vogliamo appesantire troppo questo testo trattando la tipologia e lo sviluppo dell'archetto. Ci limitiamo a trattare gli strumenti fatti suonare mediante questo espediente.
Lo strumento più semplice, a cui è applicato l'archetto, è la tromba marina che è, in origine, nient'altro che un monocordo, a cui viene applicato l'archetto dal secolo XII, in un'epoca quindi, in cui altri strumenti ad archetto già fiorivano.
Gli strumenti ad archetto importati dagli Arabi hanno sempre piroli laterali. Tra questi il più importante è uno strumento adoperato ancora oggi nei paesi arabi del Maghreb, il rebâb, uno strumento con una cassa ricavata insieme col manico da un unico pezzo di legno, quindi senza separazione tra cassa e manico, cassa con leggere sciancrature per fornire posto al maneggiamento dell'archetto, cassa coperta di pelle, con un manico senza legacci, con un cavigliere piegato indietro con uno o due piroli laterali, e con una o due corde di minugia attaccate all'estremità inferiore della cassa. Da questo rebâb si sviluppò il ribecchino europeo, pure con una cassa ricavata insieme col manico da un unico pezzo di legno, quindi senza separazione tra cassa e manico, con un manico senza legacci, con piroli laterali e con corde attaccate all'estremità inferiore della cassa, generalmente tramite una cordiera. Le differenze tra questo strumento e quello arabo sono: la cassa ha la forma di pera senza sciancrature, è coperta di legno di conifera, il cavigliere ha la forma di falce, e il numero delle corde ammonta a due o tre. Sappiamo che con due corde l'accordatura era Do2 - Sol2. Il ribecchino divenne obsoleto nel secolo XVI, ma sopravvisse ancora più tardi - sino al secolo XIX - in uno strumento chiamato in Francia pochette, in Italia a volte sordino. In questa sede abbiamo scelto la denominazione francese, perché in italiano la parola sordino è usato anche per il clavicordo.
Gli strumenti importati in Europa tramite l'impero bizantino hanno sempre una paletta con piroli frontali o posteriori. Tra questi il più importante è uno strumento adoperato ancora oggi nella musica popolare della ex Jugoslavia, della Bulgaria, della Grecia, dell'Anatolia e della Georgia. Il nome greco è lira, nome d'uno strumento totalmente diverso - una lira in senso generico a pizzico - che è trasferito a uno strumento con manico, suonato con l'archetto.
In Europa lo strumento è designato normalmente come viola medievale. All'inizio ha una cassa ricavata insieme al manico da un unico pezzo di legno, quindi senza separazione tra cassa e manico, cassa coperta d'una tavola di legno, con un manico senza legacci, con una paletta con piroli frontali o posteriori, e con corde di minugia attaccate generalmente tramite una cordiera all'estremità inferiore della cassa. La cassa può avere la forma di bottiglia con la paletta come tappo, oppure di pera. Quest'ultima forma è quella più frequente della viola medievale. Inizialmente il numero delle corde ammonta a due o tre; nel caso di tre corde quella di mezzo è un bordone.
Tra i secoli XII e XV la viola medievale si sviluppò gradualmente. Il manico fu separato dalla cassa e fu incollato ad essa. Probabilmente già nel secolo XIV si costruivano strumenti non più scavati, ma composti di fondo, fasce e tavola. Perché il suonatore potesse maneggiare con più facilità l'archetto, la cassa fu sciancrata. La forma della cassa era tutt'altro che standardizzata: s'incontrano strumenti senza angoli nella forma della chitarra moderna, strumenti in forma di 8, e strumenti con quattro angoli circondanti la sciancratura come nel violino moderno. Il numero delle corde aumentò a poco a poco: già nel secolo XIII s'incontrano a volte strumenti con quattro o persino cinque corde. A quell'epoca incomincia nella musica europea una certa resistenza contro il bordone. Perciò un certo numero di viole non ha più bordone, altri strumenti lo hanno ancora, ma separato dalle altre corde e attaccato a un pirolo infisso vicino al bordo della paletta, sicché il bordone corre non sopra la tastiera, ma accanto. Così il bordone diventa una corda facoltativa. Intorno al 1280 il domenicano Hieronymus de Moravia, vivente a Parigi, dà tre accordature per la viola, di cui quella più interessante è a quattro corde senza bordone: Sol1 - Do2 - Sol2 - Re3: quasi l'accordatura della viola tenore del '500, '600, e dell'inizio del '700.
In Asia tutti gli strumenti ad archetto sono suonati in posizione verticale, appoggiati sul ginocchio o a terra. L'archetto è sempre tenuto con il palmo della mano in avanti. Durante il tardo Medioevo furono introdotte in Europa due innovazioni. In primo luogo l'archetto veniva tenuto talvolta col dorso della mano in avanti. (Si pensi alla posizione della mano destra d'un suonatore del violoncello attuale.) In secondo luogo strumenti ad archetto non troppo grandi venivano spesso appoggiati contro la spalla o il petto, come il violino o la viola moderni.
La viola medievale ha due discendenti diretti nel secolo XVI e nella prima metà del XVI, entrambi conservanti il vecchio nome lira: la lira da braccio con cinque corde tastabili e ancora due bordoni laterali, strumento che, come indica il nome, viene appoggiato contro la spalla o il petto, e la lira da gamba, generalmente con dodici corde tastabili e tra due e quattro bordoni. Di vecchio stampo in tali strumenti sono soprattutto la paletta con piroli frontali e l'uso di bordoni. Dato che strumenti di questo tipo non sono rappresentati in questa collezione, sia sufficiente questa menzione.
Dal secolo XII sino all'inizio del XVI s'incontrano le più diverse mescolanze tra i tipi degli strumenti ad arco. A volte si trova persino un liuto ad archetto! La combinazione più importante fu quella tra il ribecchino e la viola medievale. È nota una serie notevole di raffigurazioni di viole medievali - che hanno sul ribecchino il vantaggio di un numero maggiore di corde (quattro o cinque) - con cavigliere curvato con piroli laterali del ribecchino, piroli più facilmente accordabili di quelli frontali. Tale combinazione è l'origine degli strumenti ad arco europei dal secolo XVI in poi: le viole da gamba dall'inizio del '500, le viole d'amore dal secolo XVII, e le viole da braccio apparse verso il 1530.
C'è infine un'osservazione assai interessante da fare. Ogni cultura - anche ogni cultura musicale - fa una scelta tra le possibilità illimitate offertele. Un esempio di tale scelta quasi esclusiva nella musica extraeuropea è quello di varie isole indonesiane che hanno orchestre (gamelan) composte maggiormente di idiofoni. Strumenti ad arco li troviamo nelle culture dell'Asia e del Maghreb africano, ma solo in quantità ridotta. Sembra invece che la musica europea del secolo XVI facesse una scelta esclusiva quasi come quella indonesiana: nella nostra musica gli strumenti ad arco rivestono un ruolo estremamente importante. Ancora nel nostro secolo tali strumenti formano il nucleo delle orchestre sinfonica e d'opera; e la forma più importante di musica da camera è sempre il quartetto d'archi. Tale preferenza per gli strumenti ad arco non è determinata dalla natura, dall'evoluzione biologica o sociologica, perché, se questo fosse il caso, troveremmo la stessa preferenza in altre culture evolute. La preferenza europea per gli strumenti ad arco è basata su una scelta più o meno cosciente, ma difficilmente spiegabile.
La tromba marina in origine non è nient'altro che un monocordo ad archetto. Quindi, le trombe marine più primitive sono semplici, non composte; in altre parole non sono liuti in senso generico, ma cetre in senso generale, e tali sono anche certi strumenti di epoche posteriori (inv. 1750). Per quanto è possibile accertare, ci sono testimonianze dell'esistenza della tromba marina dal secolo XII.
Nel Medioevo si sviluppano due tipi di tromba marina: un tipo tenuto col cavigliere appoggiato al petto, col piede (l'estremità opposta al cavigliere) in aria, la mano sinistra del suonatore tenendo il centro della cassa, mentre la mano destra maneggia l'archetto che strofina le corde tra il cavigliere a la mano sinistra; e un tipo tenuto col cavigliere appoggiato contro la spalla sinistra del suonatore, il piede per terra, maneggiando la mano destra del suonatore l'archetto, mentre quella sinistra tocca la corda (si veda sotto). Anche nel secondo tipo l'archetto strofina la corda tra il cavigliere e la mano sinistra. S'intende che strumenti del primo tipo devono essere più corti di quelli del secondo, perché è possibile tenere uno strumento con l'estremità in aria solo quando non è troppo pesante, quindi non troppo lungo. Strumenti grandi, con una lunghezza totale intorno ai 2000 mm, possono essere suonati solo appoggiati per terra. Il tipo corto sparì nel corso del secolo XVI, mentre quello lungo rimase in uso sino al secolo XIX.
Il monocordo ad arco che è la tromba marina primitiva ha una cassa che può avere diverse sezioni, tra cui quella triangolare è assai frequente (inv. 1750 e 1797, schede 113 e 114). Una variante è la cassa a sezione di trapezio isoscele. La cassa sempre si allarga dal cavigliere verso il piede, ed è sempre aperta a quest'ultima estremità.
In origine la tromba marina era probabilmente suonata con un'unica nota, che aveva la funzione di bordone nel complesso musicale. Nel corso della prima metà del secolo XV il ponticello prende la forma asimmetrica, più o meno di una scarpa; la corda poggia sul tacco, mentre la punta si trova a piccola distanza sopra la tavola, e col vibrare della corda percuote la tavola, producendo così un timbro scricchiolante. A volte nei secoli successivi, per aumentare lo scricchiolìo, la punta del ponticello che percuote la tavola è coperta di avorio o corno, e si trova sulla tavola, sotto la punta percuotente del ponticello, un tassello di vetro, avorio, metallo o legno duro.
Sembra probabile che i suonatori dello strumento corto, appoggiandolo verso il centro sulla mano sinistra, abbiano scoperto che, quando la mano sinistra tocca le corde in certi punti si formano degli armonici. Sembra poi probabile che questa tecnica sia stata trasferita anche allo strumento lungo. Fatto è che la tromba marina è sempre stata suonata con la produzione di armonici del fondamentale della corda, con l'aggiunta di qualche nota tra certi armonici (tra 4 e 5, 5 e 6, 6 e 7, 7 e 8). Se il fondamentale è Do1 sono possibili nella terza ottava i suoni Do3 - Re3 - Mi3 - Fa3 - Sol3 - La3 - Sib3 - Si3 - Do4 (i suoni corsivi sono armonici, gli altri suoni intermedi). La tromba marina può dunque produrre all'incirca gli stessi armonici della tromba naturale, e col ponticello asimmetrico che percuote la tavola ha anche un timbro scricchiante che assomiglia a quello della tromba. Questi due elementi - restrizione agli armonici e timbro - possono spiegare la parola tromba nel nome. La spiegazione della parola marina proverrebbe da tromba mariana, nome riducibile secondo questa ipotesi al fatto che lo strumento fosse usato soprattutto come sostituzione della tromba nelle orchestre dei monasteri di suore! Questa ipotesi sembra essere confermata nei paesi di lingua tedesca, dove la provenienza della metà delle trombe marine conservate da un monastero è accertata.
Probabilmente verso la fine del secolo XVI si sviluppò una tromba marina con alcuni nuovi elementi nella cassa: questa poteva essere composta d'una tavola e d'un certo numero di doghe (generalmente cinque o sette), come quella d'un liuto, e poteva poi allargarsi verso il piede come il padiglione d'una tromba (inv. 1751, scheda 116). Una variante della cassa a doghe è quella con sezione semicircolare (inv. 1752, scheda 115). Inoltre, dal '500 la tromba marina può avere un manico separato tra cassa e cavigliere. Con l'introduzione di questo elemento la tromba marina diventa proprio un liuto in senso generico (forma transitoria: inv. 1797; forma con manico: inv. 1751 e 1752).
Una tromba marina nella forma definitiva è dunque composta degli elementi seguenti: un cavigliere con un pirolo (il cavigliere aperto o chiuso di dietro, terminante generalmente con un riccio, un quadrato piatto, uno scudo o una testa umana o animale; il pirolo normalmente laterale; il capotasto fisso oppure mobile per fare aggiustamenti con rispetto alla corda e così al ponticello); eventualmente un manico; una cassa che ha tra due e sette lati (o in alcuni casi semicircolare) più la tavola, tutto intorno a uno zocchetto (la cassa sempre aperta di sotto, con una cornice interna o esterna, o entrambe, all'uscita; la tavola normalmente con catene trasversali e in certi casi con una o più rosette); un ponticello asimmetrico e l'attacco della corda. Questa corre generalmente su un listello sotto il ponticello e passa poi attraverso una perforazione nella tavola, dietro alla quale è annodata. A volte possono essere introdotti altri elementi, ad esempio elementi presi dalla liuteria come filetti e una o più rosette (inv. 1751). Dalla metà del secolo XVII s'incontra a volte un elemento che nella letteratura francese si chiama guidon, un espediente per poter regolare la distanza tra l'estremità "libera" (la punta) del ponticello e la tavola, quindi per regolare la misura dello scricchiolio (inv. 1751). Per aumentare lo scricchiolio, la tavola sotto il ponticello è a volte coperta d'un tassello di legno duro. In certi casi possono essere introdotte corde di risonanza fuori della cassa o dentro a questa.
La tromba marina fu popolare soprattutto nell'Europa centrale e in Francia, meno in Inghilterra e i Paesi Bassi, e si trova raramente nei paesi mediterranei e scandinavi. Tre delle quattro trombe marine di questa collezione sono, però, di provenienza italiana.
Come ramo collaterale del ribecchino si sviluppò nel secolo XVI uno strumento generalmente designato col suo nome francese pochette. La pochette era adoperata soprattutto dai maestri di ballo che con lo strumento suonavano melodie, su cui facevano ballare gli allievi. Tali strumenti erano trasportati, generalmente in astucci, in una tasca (poche) dell'abito del maestro di ballo, il che spiega il nome pochette, usato anche in Italia. Qui lo strumento che aveva un suono molto leggero era chiamato anche sordino o sordina. Stradivari usava l'espressione canino.
Le pochettes più antiche - dalla fine del secolo XVI alla prima metà del secolo XVIII - hanno una cassa, un manico, un cavigliere con terminazione ricavati da un unico pezzo di legno duro; poi, sulla cassa scavata è sovrapposta una tavola di conifera. La cassa ha una forma allungata, simile a una spola o a una barca (pochette en bateau, nella letteratura latina dell'epoca linterculus). A volte il retro della cassa è lavorato simulando un numero dispari di doghe. Una pochette eccezionale di questo tipo è il 1758 di questa collezione (scheda 117), lavorata come pesce o delfino. Questo strumento di fattura molto elegante era forse un pezzo di attrezzeria teatrale.
Verso la fine del secolo XVII nacque un secondo tipo con una cassa in forma di violino o viola da gamba (pochette en violon). Certi strumenti di questo tipo hanno la stessa costruzione della pochette en bateau, cioè con la cassa, il manico e il cavigliere con la terminazione ricavati da un unico pezzo di legno duro, con la cassa scavata e la tavola sovrapposta. Ci sono, però, delle pochettes en violon con un manico separato e una cassa composta di fondo, fasce e tavola. Anche nel caso in cui la cassa ha la forma di viola da gamba, il fondo è sempre bombato.
La tavola ha due fori di risonanza che possono essere di forme diverse, e ha a volte una rosetta vicino alla tastiera. Il cavigliere è curvato, può terminare con un rettangolo, uno scudo, una testa o un riccio, e ha piroli laterali. Normalmente la tastiera, il ponticello e la cordiera sono come quelli del violino, naturalmente più piccoli. Le corde sono attaccate (la cordiera è attaccata) all'estremità inferiore della cassa, spesso a un "bottone" non separato, ma scavato dallo stesso ceppo di legno della cassa. Ci sono pochettes con e senza catena e anima.
Sono conservate pochettes, benché poche, che hanno, come il ribecchino, tre corde. Generalmente, però, il numero delle corde ammonta a quattro, come nel violino. L'accordatura è in quinte. Il più delle volte è indicata l'accordatura Do3 - Sol3 - Re4 - La4, ma il Praetorius (1619) scrive che la pochette suona un'ottava sopra il violino, quindi Sol3- Re4 - La4 - Mi5. Indubbiamente queste accordature non devono essere interpretate nel loro valore assoluto.
Nel secolo XVIII si aggiungevano a volte alla pochette quattro corde di risonanza (pochette d'amour). Il sordino divenne raro nella seconda metà del secolo XVIII e obsoleto all'inizio del XIX.
Le viole da gamba sono strumenti ad arco con certe caratteristiche speciali che li distinguono dai violini. In primo luogo l'accordatura è tale che generalmente l'intervallo tra le corde è d'una quarta perfetta; in molti casi tra due delle corde c'è anche una terza maggiore. Ad esempio la viola da gamba "normale" ha l'accordatura Re1 - Sol1 - Do2 - Mi2 - La2 - Re3. Tali accordature non provengono dai ribecchini e dalle viole medievali, il cui incrocio, come s'è già detto, condusse tra l'altro alle viole da gamba, ma piuttosto dallo strumento a pizzico più importante, dal liuto in senso specifico. Il tipo della viola da gamba fu creato all'inizio del secolo XVI, e sino al 1560 poteva avere quattro o cinque corde, in casi rari sei. Dopo il 1560 questi strumenti hanno normalmente sei corde, con due eccezioni. La prima è la viola da gamba in origine su Re1 che intorno al 1675 in Francia e più tardi anche in Germania ebbe una settima corda bassa su La0. La seconda eccezione è il piccolo pardessus de viole, che fu sviluppato in Francia intorno al 1650, e che può avere solo cinque corde.
Una seconda caratteristica delle viole da gamba è che questi strumenti vengono sempre suonati con legacci di minugia intorno al manico. Anche questa pratica fu adottata dal liuto in senso specifico. L'uso di legacci presuppone un manico piatto di dietro, perché con una sezione arrotondata i legacci scivolerebbero lungo il manico.
Come vedremo, il gruppo delle viole da gamba già all'inizio del '500 formava una famiglia con più membri (in questa epoca generalmente tre) con formati tra piccolo e grande, e con suoni tra acuti e bassi. Tutte le viole da gamba, anche quelle più piccole, erano sempre suonate in posizione verticale, generalmente tenute tra le gambe o sulle ginocchia, i membri più grandi erano appoggiati a terra, su un cuscino o su uno sgabello. La collocazione degli strumenti tra o sulle gambe spiega il nome: viola da gamba. Una conseguenza di questa collocazione è l'altezza considerevole delle fasce delle viole da gamba in confronto a quella dei violini. Le fasce delle viole da gamba su Re2 hanno un'altezza intorno ai 70 - 85 mm, quelle degli strumenti su La1 una intorno agli 80 - 90 mm, quelle degli strumenti su Re1 una di circa 100 - 150 mm, e quelle su Sol1 una tra 150 e 180 mm. (Cfr. l'altezza delle fasce d'un violino intorno ai 30 mm, di una viola circa 38 mm; solo il violoncello, quasi sempre suonato tenendolo tra le gambe, ha fasce paragonabili a quelle delle viole da gamba, con un 'altezza intorno ai 90-130 mm.)
La posizione verticale delle viole da gamba, un residuo d'una pratica antica d'origine orientale, è la terza caratteristica di questo gruppo di strumenti. D'altronde, questa posizione verticale non è l'unico residuo d'una pratica antica. Un altro residuo consiste nel fatto che i suonatori di viole da gamba nella maggior parte dei casi tengono l'archetto con il palmo della mano in avanti.
Come s'è detto, già all'inizio della vita della viola da gamba questo strumento si differenziò in vari membri. Inizialmente ce n'erano tre, ma nella seconda metà del secolo XVI già ne esistevano quattro con le accordature:
1. Re2 - Sol2 - Do3 - Mi3 - La3 - Re4, oppure Do2 - Fa2 - Sib2 - Re3 - Sol3 - Do4;
2. La1 - Re2 - Sol2 - Si2 - Mi3 - La3, oppure Sol1 - Do2 - Fa2 - La2 - Re3 - Sol3;
3. Re1 - Sol1 - Do2 - Mi2 - La2 - Re3, oppure Mi1 - La1 - Re2 - Fa2 - Si2 - Mi3;
4. Sol0 - Do1 - Fa1 - La1 - Re2 - Sol2.
Nel secolo XVII furono creati anche strumenti più grandi (in Germania su Mi0) e più piccoli (il già menzionato pardessus de viole francese), che in questa sede trascuriamo. Ora, la nomenclatura di questi membri poteva variare già nel '500 e all'inizio del '600. Giovanni Maria Lanfranco (1533), Silvestro Ganassi (1542) e Scipione Cerreto (1601), per non citare che i teorici italiani, conoscono una famiglia di tre membri composta di:
soprano, accordatura 1 su Re2;
tenore, accordatura 2 su La1 (Ganassi anche su Sol1);
basso, accordatura 3 su Re1 (Ganassi anche su Mi1).
Invece Ludovico Zacconi (1592) e Adriano Banchieri (1609), per citare di nuovo solo gli autori italiani, hanno un'altra famiglia di tre membri composta di:
soprano, accordatura 2 su La1 (Banchieri su Sol1);
tenore, accordatura 3 su Re1;
basso, accordatura 4 su Sol0.
E così iniziò una confusione babelica che dura sino ad oggi. I francesi - Marin Mersenne (1636) e gli autori dopo di lui - e gli inglesi adottarono in principio il primo sistema, i tedeschi - che seguono il Praetorius che in molti casi copiò lo Zacconi - il secondo. Così, ancora oggi la viola da gamba su Re1 è per un francese un basse de viole e per un inglese un bass viol, mentre per un tedesco è un Tenor-Viola da Gamba. Per evitare questa confusione, abbiamo qui passato sotto silenzio i nomi dei membri nelle descrizioni, e abbiamo solo menzionato un'accordatura possibile per i due strumenti, come sono arrivati a noi.
In Italia nel secolo XVI e all'inizio del XVII c'è una gamma di varianti considerevole nella costruzione delle viole da gamba. Ci sono strumenti
- generalmente con un riccio come terminazione del cavigliere, riccio con orecchiette non o solo leggermente sporgenti;
- con spalle spioventi (in una linea retta, non in una linea curva verso l'esterno, che renderebbe la sagoma troppo tozza), oppure con spalle che cominciano da! manico ad angolo retto;
- con una cassa con una sagoma senza angoli ("da chitarra"), con angoli non sporgenti, con angoli sporgenti (come ad esempio nel violino normale), eventualmente con tagli nella sagoma della parte superiore (tra il manico e gli angoli superiori), della parte centrale (tra i quattro angoli) e della parte inferiore (tra gli angoli inferiori e l'estremità inferiore); strumenti con le firme di Antonio e Giovanni Battista Siciliano (o Ciciliano), sedicenti veneziani, hanno una cassa, nella cui parte superiore c'è una tavola con misure più strette di quelle del fondo, sicché le fasce spiovono dal fondo verso la tavola, ma l'originalità di almeno una parte di questi strumenti non è fuori dubbio;
- con un fondo bombato oppure piatto, eventualmente con una piega nella parte superiore verso il manico; nel caso d'un fondo piatto ci sono ad ogni modo una catena sulla piega - o comunque nella parte superiore - e una catena nella parte inferiore della cassa; nel caso d'uno strumento con anima c'è nella parte centrale della cassa una piastra da supporto per l'anima; nel caso d'un fondo bombato non ci sono né catena né piastra; il fondo può aver filetti o meno;
- con aggetto del fondo e della tavola sopra le fasce, o senza di esso;
- con fori di risonanza in forma di C con la curvatura verso l'esterno (la forma antica per i fori), in forma di C con la curvatura verso l'interno (la forma più recente dei fori), in forma di effe - fori a C o ad effe con o senza tagli -, eventualmente in forma di serpe o di fiamma; ci sono anche strumenti con una rosetta vicino alla tastiera.
La tavola è sempre bombata con filetti. Nel secolo XVI non tutte le viole da gamba hanno un'anima e una catena longitudinale sotto la tavola, e negli strumenti che la hanno, la catena non è sempre incollata, ma può esser ricavata dal legno della tavola. C'è sempre uno zocchetto superiore e inferiore, ma sulla storia degli altri rinforzi della cassa in questa epoca poco è noto. Il manico è sovrapposto allo zocchetto superiore, incollato e fissato con un chiodo di ferro forgiato. I piroli sono sempre laterali. C'è una tastiera, un ponticello e una cordiera, quest'ultima attaccata a un cavicchio di ferro nello zocchetto inferiore.
All'inizio del secolo XVII la viola da gamba sparì in gran parte dall'Italia, ma continuò a vivere in Francia, in Inghilterra, nei Paesi Bassi e in Germania. Sino al 1680 erano usati ancora complessi di viole da gamba in questi paesi; dopo questa data generalmente solo la viola da gamba su Re1 (che, come s'è già detto, può aver sette corde ed essere in realtà su La0) aveva una parte importante come strumento solista, a prescindere dal già più volte menzionato pardessus de viole francese. Quando Stradivari costruì viole da gamba intorno al 1701, le chiamava "bassi alla francese" o "viole da sette corde alla francese". Fuori dell'Italia la viola da gamba sparì dalla prassi esecutiva nella seconda metà del secolo XVIII.
Generalmente le viole da gamba d'oltralpe hanno le seguenti caratteristiche:
- testa umana o animale come terminazione del cavigliere;
- spalle spioventi in una linea retta;
- cassa con angoli non sporgenti (i tagli nella sagoma s'incontrano quasi esclusivamente in viole da gamba tedesche sino al 1700);
- fondo piatto, eventualmente con una piega nella parte superiore verso il manico; il fondo generalmente ha dei filetti, una catena sulla piega o comunque nella parte superiore della cassa, una catena nella parte inferiore della cassa, e una piastra da supporto per l'anima;
- non c'è aggetto del fondo e della tavola sopra le fasce;
- fori di risonanza generalmente in forma di C con la curvatura verso l'interno senza tagli; eventualmente una rosetta nella vicinanza della tastiera.
La tavola è sempre bombata con filetti, ci sono sempre una catena longitudinale incollata sotto la tavola e un'anima. C'è sempre uno zocchetto superiore e uno inferiore, ma in questa epoca ci sono anche zocchetti negli angoli e controfasce, dove il fondo e la tavola sono congiunti alle fasce. Ciò che è stato detto sopra sul manico, sui piroli, sulla tastiera, sul ponticello e sulla cordiera vale anche qui. Nella maggior parte dei casi quest'ultima è ancora attaccata a un cavicchio di ferro nello zocchetto inferiore, ma ci sono viole da gamba in cui la cordiera è attaccata, come nei violini, con una corda di minugia a un bottone reggicordiera nello zocchetto inferiore. Non c'è mai, nello stato originale, un puntale.
Le viole d'amore sono strumenti ideati nel territorio di lingua tedesca, malgrado il nome italiano, per la cui spiegazione esistono d'altronde varie ipotesi, nessuna delle quali soddisfa completamente. Ad ogni modo le fasce dei due tipi di viola d'amore, la cui altezza va da 40, sino a 65 mm, sono così basse che ne risulta che gli strumenti dei due tipi erano suonati appoggiati contro la spalla o il petto, come il violino. Dal diario di John Evelyn (1679) sino a Johann Philipp Eisel (Musicus autodidaktos, 1738) la viola d'amore è descritta come uno strumento con le misure approssimativamente d'un violino o d'una viola, con fasce basse, con cinque o sei, a volte sette corde, di cui la maggior parte è di metallo. Oggi le corde di metallo sugli strumenti ad arco sono considerate normali. Però, non si dimentichi che ancora negli anni 1930-40 un violino era provvisto di corde di minugia, tranne la Mi4, che il più delle volte era di acciaio. Tanto di più l'uso di corde strofinate di metallo fu innovativo nei secoli XVII e XVIII, e la reazione dei vari autori fu disparata: consideravano tali corde dolci, aspre o argentine.
Per questo tipo di viola d'amore ci sono varie accordature che consistono sempre in una triade arpeggiata. Quella più comune è: Sol2 - Do3 - Mi(b)3 - Sol3 - Do4. Questo tipo fu costruito soprattutto nella Germania settentrionale (Joachim Tielke ad Amburgo, Paul Albrecht a Danzica), occasionalmente anche nel meridione del territorio di lingua tedesca e in Italia.
Frattanto era stata introdotta un'altra innovazione: l'uso di corde di risonanza. Uno strumento con corde di risonanza ha due piani di corde: un piano superiore con corde generalmente di minugia che sono strofinate, e un piano inferiore con corde di metallo che hanno la funzione di rafforzare con la loro risonanza il suono delle corde strofinate. Le corde di risonanza sono attaccate, come quelle strofinate, a piroli nel cavigliere, che deve essere assai allungato malgrado il formato piccolo dei piroli. Le corde di risonanza corrono poi in un'incavatura nel manico dietro la tastiera, attraverso il ponticello, e sono attaccate a uncini nella cordiera oppure a chiodini o vitine all'estremità inferiore della cassa.
L'origine delle corde di risonanza è ancora oscura. È possibile che siano state adottate per strumenti in uso in India, dove sono applicate a certi strumenti ad arco (esraj e sarinda) e a pizzico (sarod). È un fatto che vengono già applicate a viole da gamba in Inghilterra dall'inizio del secolo XVII sino a un periodo di poco precedente il 1661, quando John Playford (Musick's Recreation on the Viol, Lyra Way) c'informa che in quell'anno tali corde in viole da gamba sono obsolete. In seguito, le corde di risonanza furono applicate soprattutto agli strumenti seguenti:
- baritono o viola di bardone nella regione meridionale del territorio di lingua tedesca nei secoli XVII e XVIII;
- viola d'amore dalla fine del secolo XVII;
- hardingfele norvegese dalla fine del secolo XVII;
- nyckelharpa svedese dal secolo XVIII;
- trompette marine organisée (tromba marina con corde di risonanza) in Francia nel secolo XVIII;
- pochette d'amour (sordino con corde di risonanza) in Francia nel secolo XVIII.
La viola d'amore classica ha sei o sette corde strofinate di minugia, e lo stesso numero di corde di risonanza di metallo. Ci sono varie accordature, che anche qui consistono generalmente in triadi arpeggiate. Quella più comune è: Re2 - (Fa#2) - La2 - Re3 - Fa#3 - La3 - Re4.
Questo tipo di viola d'amore ha la sua origine verso la fine del secolo XVII nel meridione del territorio di lingua tedesca, probabilmente a Salisburgo, dove l'ideatore fu verosimilmente Johann Paul Schorn. All'inizio del secolo XVIII la viola d'amore classica si diffuse a Vienna, in Boemia, in Sassonia, poi negli anni 1710 in Italia. Dopo la fine del secolo XVIII l'uso della viola d'amore classica diminuì, ma lo strumento non cadde mai in disuso, come testimonia l'applicazione in composizioni di Giacomo Meyerbeer, Jules Massenet, Giacomo Puccini, Wilhelm Kienzl, Hans Pfitzner, Paul Hindemith, Frank Martin e altri.
I due tipi di viola d'amore hanno una cassa del tipo della viola da gamba barocca - spalle spioventi; angoli non sporgenti; fondo piatto, eventualmente con una piega verso il manico, con due catene, una sulla piega e una nella parte inferiore, e una piastra centrale come supporto per l'anima; senza aggetto del fondo e della tavola sopra le fasce -, ma, come s'è già detto, con fasce basse, e con fori di risonanza in forma di serpe, di fiamma, o di uncino, eventualmente con occhielli inferiori o centrali. In molti casi c'è una rosetta in prossimità della tastiera. La tavola è sempre bombata, ci sono zocchetti superiore, inferiore e negli angoli e controfasce, catena longitudinale sotto la tavola e anima. Il manico è sovrapposto allo zocchetto superiore, ha generalmente una sezione semicircolare che impedisce l'uso di legacci, e termina con una testa umana o animale, spesso di putto o di "amorino", frequentemente con ali o con una benda sopra gli occhi, ma negli strumenti italiani generalmente con un riccio. Lo strumento ha una tastiera, un ponticello e una cordiera speciali, adattati a sei o sette corde; la cordiera è normalmente attaccata con una corda di minugia a un bottone reggicordiera nello zocchetto inferiore.
Esistono viole d'amore speciali, chiamate da Leopold Mozart (Violinschule, 1756) englisches Violett. In tedesco la parola "englisch" può avere due significati, "inglese" o "angelico". A causa della testa di putto o di "amorino" che spesso forma la terminazione del cavigliere negli strumenti d'oltralpe, Leopold Mozart applica la parola nel senso di "angelico". In italiano si usa generalmente la traduzione sbagliata violetta inglese.
Secondo Leopold Mozart la violetta inglese ha un numero di corde di risonanza che ammonta a due volte quello delle corde strofinate. In pratica s'incontrano strumenti di questo tipo con altri numeri di corde di risonanza che devono, però, sempre superare quello delle corde strofinate. Così, il 1762 di questa collezione (scheda 123) ha sette corde strofinate e dodici corde di risonanza. Le corde strofinate hanno la stessa accordatura di quella della viola d'amore normale; sull'accordatura delle corde di risonanza non si hanno notizie. Nella maggior parte dei casi la cassa della violetta inglese ha una sagoma speciale con curvature e tagli nelle tre parti. Tutte le violette inglesi provengono dalla parte meridionale del territorio di lingua tedesca, e dalla Boemia.
Le viole da braccio costituiscono una famiglia di strumenti ad arco che si è mantenuta sino ad oggi: comprende il violino, la viola e il violoncello, usati ancora attualmente, e anche qualche variante. La famiglia, come esiste ancora oggi, è quasi identica a quella formatasi nel secolo XVI.
Le viole da braccio hanno caratteristiche che le distinguono nettamente dalle viole da gamba. In primo luogo l'accordatura contiene generalmente quinte perfette tra le singole corde. Così ad esempio il violino ha l'accordatura Sol2 - Re3 - La3 - Mi4. Le accordature in quinte provengono dalle viole e dai ribecchini medioevali, il cui incrocio, come s'è già detto, condusse tra l'altro alla formazione delle viole da braccio. La famiglia deve esser nata verso il 1530, probabilmente nell'Italia nordoccidentale (Piemonte, Lombardia). Nella prima metà del secolo XVI gli strumenti potevano avere tre corde, dal 1550 il numero delle corde ammonta generalmente a quattro. Cinque corde si trovano eccezionalmente in uno strumento basso menzionato dal Praetorius (1619), e in qualche strumento dei secoli XVIII e XIX (viola pomposa, violino pomposo, violoncello a cinque corde, in Francia il quinton).
La seconda caratteristica delle viole da braccio è che questi strumenti sono generalmente suonati senza legacci di minugia. (Probabilmente il quinton francese, già menzionato, appartenente alla famiglia delle viole da braccio, ma incorporante qualche caratteristica delle viole da gamba - benché sempre suonato contro la spalla o il petto -, era suonato con legacci.)
Il gruppo delle viole da braccio già intorno al 1530 formava una famiglia con più membri con formati tra piccolo e grande, e con suoni tra acuti e bassi: inizialmente in realtà solo tre, ma verso la fine del '500 e agli albori del '600 realmente quattro. I membri più piccoli della famiglia erano sempre suonati in posizione più o meno orizzontale, appoggiati contro la spalla o il petto. S'intende che questa posizione risulterebbe difficile per il basso della famiglia, il violoncello, che veniva suonato generalmente tra le gambe. (Dell'uso del violoncello con puntale c'è testimonianza per la prima volta intorno al 1780, e il puntale non fu accettato definitivamente che verso la fine del secolo XIX.) Il fatto che i membri più piccoli della famiglia sono suonati appoggiati contro la spalla o il petto, spiega il nome "viola da braccio", applicato poi anche al violoncello, quasi mai suonato "da braccio". Questa pratica spiega anche la bassezza delle fasce negli strumenti piccoli: quelle del violino sono intorno ai 30 mm, quelle della viola circa 38 mm. Solo i violoncelli hanno fasce più alte, intorno ai 90 - 130 mm.
Con l'adozione della posizione orizzontale dei membri piccoli della famiglia delle viole da braccio fu abbandonato un elemento della pratica antica d'origine orientale, ancora mantenuto nelle viole da gamba. Un altro elemento della pratica antica fu poi abbandonato: i suonatori di violoncello, benché questo strumento sia suonato in posizione verticale, tengono generalmente l'archetto col dorso della mano in avanti. Solo i suonatori di contrabbasso (si veda sotto) tengono a volte l'archetto con il palmo della mano in avanti, ma, come vedremo, questo strumento ha conservato vari elementi della viola da gamba.
Come s'è già detto, all'inizio la viola da braccio si differenziò in vari membri. Generalmente ce ne sono tre, che riassumiamo qui nella forma definitiva con quattro corde:
violino, Sol2 - Re3 - La3 - Mi4;
viola, Do2 - Sol2 - Re3 - La3;
violoncello, Sib0 - Fa1 - Do2 - Sol2, oppure Do1 - Sol1 - Re2 - La2.
La nomenclatura dei singoli membri è stata sottoposta a variazioni che, per non complicare troppo la storia, non vogliamo discutere in questa sede. Il lettore, assimilando con attenzione questo elenco, si accorgerà di due cose. In primo luogo, il violoncello nei primi secoli della sua esistenza poteva essere accordato in quinte su Sib0. Il vantaggio di questa accordatura è che con questa la famiglia intera è accordata con una serie continua di quinte: Sib0 - Fa1 - Do2 - Sol2 - Re3 - La3 - Mi4. L'accordatura del violoncello in quinte su Sib0 s'incontra in Italia da Giovanni Maria Lanfranco (1533) sino a Pietro Cerone (1613) e in Francia da Philibert Jambe de Fer (1556) sino alla fine del secolo XVII. In Germania questa accordatura non fu mai applicata. In Germania, e anche in Italia dopo l'inizio del secolo XVII e in Francia dopo la fine del '600, ebbe il sopravvento l'accordatura su Do1, un'ottava sotto la viola.
In secondo luogo, il lettore s'accorgerà del fatto che la famiglia consiste di soprano, contralto e basso, senza tenore. Il tenore dovrebbe avere l'accordatura Fa1 - Do2 - Sol2 - Re3 (tra gli strumenti su Sib0 e Do2), oppure Sol1 - Re2 - La2 - Mi3 (un 'ottava sotto il violino). Infatti, tali strumenti sono stati costruiti almeno dal 1592 (Ludovico Zacconi) sino al 1690, data di uno strumento uscito dalla bottega di Stradivari, ora conservato nella collezione di strumenti musicali del Conservatorio "Luigi Cherubini" a Firenze (ex proprietà medicea). Lo strumento ebbe vari nomi, di cui viola tenore era quello più usato. Lo strumento era una viola di dimensioni molto grandi - ad ogni modo lo è lo strumento dello Stradivari - e di conseguenza poco maneggevole, sicché fu abbandonato nella pratica musicale.
Furono costruiti anche strumenti di formati più piccoli e più grandi, tra cui già il Praetorius (1619) ne menziona due: un violino piccolo in quinte su Do3, e un violoncello grande con cinque corde in quinte su Fa0. Di quest'ultimo il Praetorius è l'unico testimone; il primo ebbe un certo successo come strumento solista sino al secolo XVIII. Dopo, soprattutto i secoli XVIII e XIX furono assai creativi nell'ideare sempre nuove variazioni di viole da braccio che, però, non ebbero un gran successo.
I membri della famiglia delle viole da braccio già dall'inizio hanno un numero notevole di caratteristiche in comune. Generalmente il cavigliere termina con un riccio (le teste sono limitate alla Germania); le spalle incominciano con un angolo retto rispetto al manico, quindi non spiovono; la cassa ha angoli sporgenti; fondo e tavola sono bombati con aggetti sopra le fasce e con filetti; i fori di risonanza hanno la forma di effe; c'è una catena longitudinale sotto la tavola e un'anima. Normalmente ci sono uno zocchetto superiore, uno inferiore, zocchetti negli angoli e controfasce dove il fondo e la tavola toccano le fasce. Sino all'inizio del secolo XIX il manico è sovrapposto allo zocchetto superiore, quasi verticale, abbastanza corto e molto arrotondato dietro, ed è fatto in un solo pezzo col cavigliere e col riccio. La tastiera non è molto lunga, perché i suonatori non raggiungevano posizioni molto alte. Poi c'erano piroli laterali, un ponticello piuttosto basso e una cordiera attaccata con una corda di minugia a un bottone reggicordiera nello zocchetto inferiore. Come s'è già detto, sino alla fine del secolo XVIII e in parte ancora nel XIX il violoncello non aveva puntale. Le corde erano di minugia, eventualmente avvolte. Soprattutto all'inizio dell'Ottocento con l'ascesa della borghesia che desiderava approfittare dello sviluppo della musica, furono costruiti sale da concerto e teatri lirici più grandi, e per riempire tali vani di suono, non solo furono ingrandite le orchestre, ma fu anche aumentata la sonorità dei singoli strumenti. Inoltre, la sorgente vita concertistica implicava una certa superficialità degli ascoltatori appartenenti, come s'è detto, alla borghesia che non era stata preparata al piacere della musica. Così si spiega non solo la spaccatura in musica colta e una musica artisticamente senza valore - una spaccatura che andrà aumentando nell'Ottocento e nel Novecento sino all'abisso incolmabile che esiste oggi -, ma anche un virtuosismo, inizialmente non senza valore artistico - si pensi a Paganini, Chopin e Liszt -, ma spesso anche privo di pregi estetici. Il virtuosismo esigeva strumenti che permettevano lo spiegamento della tecnica superiore dei suonatori.
Secondo queste esigenze anche gli strumenti ad arco furono cambiati; però, c'è da tener conto della differenza netta tra aerofoni e cordofoni ad arco. Aerofoni con sistemi moderni furono adottati dopo un certo tempo, e gli strumenti antichi furono abbandonati. Con l'introduzione del flauto Böhm furono abbandonati i flauti provvisti di sistemi vecchi; con quella degli oboi francesi i suonatori si sbarazzarono degli oboi provvisti di sistemi vecchi; con quella degli strumenti a pistoni o a cilindri i musicisti si disfecero degli strumenti naturali o a chiavi. Nel peggiore dei casi, gli strumenti abbandonati furono buttati nelle immondizie, nel migliore furono solo scartati per poi formare il nucleo delle collezioni museali e private.
Nel caso degli strumenti ad arco, al contrario, la situazione era differente. Molti suonatori erano in possesso di strumenti di grande qualità, spesso usciti dalle botteghe di costruttori italiani, strumenti che essi non volevano buttare o lasciare a musei o collezionisti. Così alcuni elementi di tali strumenti erano conservati: generalmente la maggior parte della cassa, che secondo l'intendimento dell'Ottocento era l'unica portatrice della sonorità, e il riccio come pezzo di scultura pregiato. Venivano invece sostituiti il manico, la tastiera, i piroli, il ponticello, la cordiera, il bottone reggicordiera e la catena sotto la tavola. Il nuovo manico è generalmente alquanto più lungo di quello originale, è inserito nello zocchetto superiore - non sovrapposto ad esso - sì da essere inclinato indietro, non verticale, e poi più piatto di quello originale, di modo che il suonatore con la mano sinistra possa raggiungere posizioni molto alte. La conseguenza dell'inclinazione del manico è che diventa necessario anche un ponticello più alto, su cui le corde formano un angolo meno ottuso che col ponticello originale. Così la pressione delle corde sul ponticello e di quest'ultimo sulla tavola diviene maggiore, e per contrastare questa pressione, sotto la tavola ci vuole una catena più lunga, larga e spessa. Per poter raggiungere le posizioni alte, è necessaria poi una tastiera più lunga. E i piroli, la cordiera e il bottone reggicordiera erano spesso sostituiti con tali pezzi più conformi al gusto "moderno".
La maggior parte degli strumenti già esistenti fu cambiata secondo questo programma. Le parti tolte furono poi generalmente buttate. In questa maniera soprattutto gli strumenti di gran qualità, specie quelli italiani, furono cambiati, e rarissimi sono i capolavori con tutte le parti originali. Purtroppo, a parte la viola tenore che è un pezzo unico, non ci sono strumenti della famiglia delle viole da braccio provenienti dalla bottega di Stradivari interamente originali. Quindi, non si può parlare sensatamente della "tipica sonorità stradivariana", perché tale sonorità è sconosciuta, già a causa del fatto che, a parte quell'unico strumento, nessun altro strumento stradivariano possiede ancora tutte le sue parti originali. E allora lasciamo da parte il materiale delle corde che era sempre minugia, eventualmente avvolta, mentre oggi - a richiesta d'una generazione in gran parte sorda a causa dell'inquinamento acustico che siamo costretti a sopportare - sono usate quasi esclusivamente corde di metallo.
Nello stato originale rimasero soprattutto strumenti di minor qualità, perché non venivano suonati. S'intende che strumenti dell'Ottocento e del Novecento sono stati costruiti subito secondo il nuovo modello (inv. 3390 e 3391, schede 130 e 131).
Perché i giovani potessero incominciare a suonare il violino e il violoncello in età più giovane possibile, tali strumenti nell'Ottocento e nel Novecento erano costruiti in formati più piccoli: violini e violoncelli mezzi e tre quarti (inv. 3391).
Nell'orchestra e a volte nei complessi di musica da camera, è ancora in uso il contrabbasso. Questo strumento proviene dalla viola da gamba su Sol1, e può avere certe caratteristiche della viola da gamba: la sagoma della cassa può avere angoli non sporgenti o non avere angoli, oppure avere angoli sporgenti; il fondo può essere piatto, eventualmente con una piega verso il manico, con due catene e piastra come supporto per l'anima, o può essere bombato senza catene e piastra, può avere o non avere filetti; le fasce sono generalmente assai alte (sino a 240 mm); fondo e tavola possono avere o non avere aggetto sopra le fasce. Generalmente i fori di risonanza hanno - come nelle viole da braccio - la forma di effe, ma ci può essere una rosetta nella tavola. I primi contrabbassi avevano sei o cinque corde; nel secolo XVIII ce ne sono generalmente quattro, a volte con quarte tra le corde, come nella viola da gamba, nella seconda metà del '700 ci sono spesso contrabbassi con solo tre corde. Il n. 3394 di questa collezione (scheda 132) aveva in origine quattro corde, e adesso ne ha solo tre. Riassumiamo le accordature degli strumenti con quattro e tre corde nella descrizione del n. 3394. Nell'Ottocento e nel nostro secolo il contrabbasso può avere quattro corde accordate in quarte, come la viola da gamba (Mi0 - La0 - Re1 - Sol1) oppure cinque (con una quinta corda su Do0).
Una maniera per strofinare le corde che differisce da quella che usa un archetto è realizzata nella ghironda. In questo strumento le corde, attaccate da un lato a piroli in un cavigliere, e dall'altro all'estremità inferiore della cassa - generalmente mediante una cordiera -, passano sopra una ruota di legno. La ruota è fatta girare mediante una manovella all'estremità inferiore della cassa ed essendo coperta di resina (generalmente colofonia) fa suonare le corde che ci passano sopra. Le corde, per evitare che si sciupino o si rompano, sono coperte di ovatta dove posano sulla ruota.
Per quanto c'è noto, la ghironda già all'inizio della sua esistenza aveva, oltre ad almeno una corda tastabile, una o due corde che emettevano una o due note continue (bordoni) insieme con la melodia. Le corde tastabili della ghironda possono essere tastate, dunque raccorciate, non con le dita, come nella maggior parte degli strumenti ad arco, ma con tasti. Verso l'estremità superiore della cassa, c'è la cassa dei tasti. Questi ultimi sono guidati dalle due pareti laterali della cassa dei tasti e hanno una, due o tre tangenti ciascuno. Il numero delle tangenti corrisponde a quelle delle corde tastabili. Quando un tasto deve raccorciare la lunghezza vibrante della corda tastabile (delle corde tastabili), il suonatore preme il frontalino del tasto in questione, la leva del tasto entra per una certa lunghezza nella cassa dei tasti, e la tangente preme contro la corda tastabile (le tangenti premono contro le corde tastabili). Dopo, il tasto ricade nella posizione di partenza mediante il proprio peso. Quindi, la ghironda possiede elementi che non s'incontrano nella maggior parte degli strumenti ad arco: la ruota con la manovella, e la cassa coi tasti e con le tangenti. Inoltre, il principio dei bordoni, abbandonati negli strumenti ad arco con la sparizione delle lire (da braccio e da gamba) è mantenuto nella ghironda.
Le prime raffigurazioni di ghironde risalgono al secolo XII e si trovano in Spagna e in Francia. Si tratta di strumenti lunghi tra 1,5 e 2 m., posati in grembo a due suonatori, di cui uno fa girare la manovella e l'altro fa azionare i tasti. Lo strumento si chiama organistrum, aveva una corda tastabile e due bordoni, questi ultimi pure passanti attraverso la cassa dei tasti, e otto tasti. Veniva usato nei monasteri e nelle scuole dipendenti da questi per insegnare il canto e dare l'intonazione giusta ai cantori. Un trattato Quomodo organistrum construatur risale al secolo XIII.
Nel corso del '200 la ghironda si diffuse anche nel resto dell'Europa occidentale e centrale, vennero poi introdotte ghironde più piccole usate per accompagnare la monodia secolare del Medioevo, e usate anche in complessi di strumenti soprattutto a corda, in primo luogo di strumenti pizzicati.
Già nel secolo XV, con lo sviluppo della musica polifonica, ci fu sempre meno posto per gli strumenti a bordone. Questi ultimi o vennero abbandonati, il che si può constatare ad esempio nel caso della viola medievale che fu suonato sempre di più senza bordoni (gli ultimi discendenti con bordoni furono, come s'è già detto, la lira da braccio e quella da gamba, che sparirono intorno al 1650), oppure mantennero il bordone, ma decaddero socialmente e divennero strumenti da contadini nel caso più favorevole, o altrimenti da mendicanti. Questa discesa sociale è da constatare nei casi della cornamusa e della ghironda. Nei trattati dal '400 al '600 la ghironda non è menzionata, oppure menzionata con una connotazione negativa. La ghironda nei secoli XIII-XVII aveva generalmente una cassa con una sagoma come quella della viola medievale. Il numero delle corde tastabili e dei bordoni poteva variare. Nella maggior parte dei casi i bordoni passavano attraverso la cassa dei tasti. Questi ultimi erano disposti sì che ne risultasse una scala diatonica.
All'inizio del secolo XVIII, seguendo la moda pastorale, soprattutto in Francia, la ghironda fu adottata - insieme alla cornamusa e al salterio - dall'aristocrazia per figurare nelle fêtes champêtres. In questa epoca la costruzione della ghironda divenne più raffinata, e le possibilità musicali furono ampliate. La cassa di tali ghironde ha sempre la forma di liuto o di chitarra; in alcuni casi le casse di liuti o chitarre erano usate per farne ghironde. I materiali usati erano anche più nobili; così, ad esempio i tasti diatonici erano spesso fatti di ebano, e quelli cromatici di avorio.
Il numero dei tasti fu esteso: essi furono disposti in modo che ne risultasse una scala cromatica con un ambito di due ottave (Sol3 - Sol5 senza Fa#5). Fu ampliato e variato anche il numero delle corde. C'erano sempre due corde tastabili passanti attraverso la cassa dei tasti. Inoltre c'erano quattro bordoni, sempre disposti fuori della cassa dei tasti. Da un lato di quest'ultima (da quello dei frontalini dei tasti) c'erano il gros bourdon (su Sol1) e il petit bourdon (su Do2), dall'altro lato c'erano la mouche (su Sol2) e la trompette (su Do3 o Re3). Con tale disposizione era possibile suonare in due tonalità, in Sol maggiore o Do maggiore. Per Sol maggiore funzionavano da bordoni Sol1 (gros bourdon), Sol2 (mouche) e Re3 (trompette); per tale risultato era necessario togliere il petit bourdon che era agganciato a un pirolo messo sulla tavola appositamente con tale scopo, poi accordare la tromba a Re3. Per Do maggiore funzionavano da bordoni Do2 (petit bourdon), Sol2 (mouche) e Do3 (trompette); per arrivare a tale risultato era necessario togliere il gros bourdon che era agganciato al pirolo sulla tavola e così non passava sulla ruota, poi accordare la tromba a Do3.
Inoltre, fu assunto dalla tromba marina un ponticello asimmetrico in forma di scarpa per la tromba. Il ponticello poggiava sul tacco, mentre la punta si trovava a breve distanza sopra la tavola; col vibrare della tromba la punta percuoteva la tavola, producendo così un timbro scricchiolante. L'adozione di tale elemento dalla tromba marina per il bordone più alto (accordato a Re3 o Do3) spiega il nome trompette dato a questo bordone. Fu persino introdotto per la tromba il guidon della tromba marina in forma d'un pirolo attraverso la cordiera; al pirolo è attaccata una corda disposta trasversalmente rispetto alla tromba, sicché la distanza tra la punta del ponticello e la tavola, e così la misura dello scricchiolio, poteva essere regolata.
Dopo il '700 la ghironda ricadde allo stato di strumento da musica popolare o addirittura da mendicanti. Soprattutto in Francia, però, lo strumento mantenne le possibilità aumentate durante il '700: casse in forma di liuto o chitarra, tasti disposti cromaticamente, bordoni fuori della cassa dei tasti, disposizione del bordone più alto come tromba. Fuori della Francia la ghironda continuava a essere costruita secondo i vecchi modelli, ma in parte adottando i cambiamenti fatti in Francia nel '700. Così, la ghironda inv. 1853 di questa collezione (scheda 133) ha ancora una cassa in forma di viola medievale, tre corde tastabili e tasti disposti diatonicamente. D'altro canto, i bordoni, che sono solo tre, si trovano fuori della cassa dei tasti, e uno dei bordoni in origine può aver avuto la disposizione della tromba (trompette).
A. L'arpa sino al secolo XVII
Le arpe più semplici sono composte d'una cassa e d'una parte chiamata modiglione. Le corde sono infisse da un lato nella cassa, dall'altro nel modiglione. Tra la cassa e la linea delle corde c'è sempre un angolo acuto.
In origine la cassa può essere fatta con diversi materiali. Il modiglione può avere una forma curvata (arpa curva), oppure essere diritto e fare un angolo con la cassa (arpa angolare). L'arpa curva è conosciuta dalla prima metà del terzo millennio avanti l'era volgare (Egitto), ed è usata ancora oggi da una parte in Africa a nord dell'equatore dalla Mauritania lungo la costa occidentale sino all'Uganda, dall'altra in Asia soprattutto in Birmania. L'arpa angolare s'incontra per la prima volta verso la fine del terzo millennio avanti l'era volgare (Babilonia), ed è usata ancora oggi in poche regioni (Georgia, Afghanistan).
È chiaro che tali arpe, sia curve sia angolari, sono strumenti alquanto deboli dal punto di vista statico. Generalmente questi due tipi d'arpa hanno anche poche corde: in Africa tra cinque e otto, raramente sino a tredici, in Birmania quattordici. Sono conosciuti, però, documenti iconografici secondo i quali l'arpa in Persia e Cina poteva avere sino a quaranta corde, ma un tale numero è piuttosto eccezionale. L'arpa in due parti (cassa e modiglione) è raffigurata in Europa dal secolo VIII al XII, raramente più tardi. Tali immagini forse non sono documenti realistici, ma sono da interpretare come archetipici.
Normalmente l'arpa europea ha un telaio chiuso, composto di tre elementi: cassa, modiglione e colonna. Anche nell'arpa a telaio le corde sono infisse nella cassa, generalmente con bottoncini fermacorde, e nel modiglione con caviglie. La colonna ha la funzione di fornire supporto tra la cassa e il modiglione e di contrastare la tensione delle corde. Le caviglie attraversano il modiglione. Normalmente le corde sono attaccate alle caviglie dal lato sinistro (visto da chi suona), e vengono accordate all'estremità delle caviglie al lato destro del modiglione.
Arpe a telaio chiuso s'incontrano non solo in Europa, ma anche - dopo l'importazione dalla Spagna - nell'America Latina (Messico, Venezuela, Colombia, Ecuador, Perù, Paraguay, Cile, Argentina, e una tale arpa è in uso addirittura presso gli Indios in Arizona, negli Stati Uniti).
L'arpa a telaio chiuso è quindi uno strumento più stabile dal punto di vista statico, ma ciò nondimeno il numero delle corde dell'arpa europea aumentò poco o niente durante i primi secoli. Le arpe "romaniche" di forma tarchiata, usate sino al secolo XIII, in parte anche sino al XIV, di rado hanno più di tredici corde.
Nel secolo XIV s'incomincia ad approfittare della statica migliorata dell'arpa. In questa epoca nasce l'arpa "gotica" di forma allungata con due "nasi" spiccati, uno all'estremità superiore della colonna, l'altro come sporgenza del modiglione al di sopra della cassa (cfr. inv. 1765). La forma allungata dell'arpa permette l'uso di corde più lunghe, dunque offre la possibilità di far sentire note più basse. Il numero delle corde può salire sino a 20 (il numero delle note della mano guidonica: Sol1 - Mi4) o persino 22.
Nel secolo XVI la forma dell'arpa non cambia essenzialmente, ma il numero delle corde può crescere sino a 26, persino a 29. Quest'ultimo numero è quello dell'arpa a quattro ottave (Do1 - Do5). Nei secoli XV e XVI la cassa è spesso composta di due metà ricavate da legno duro o semiduro, poi incollate (cfr. inv. 1765 , scheda 134). Spesso la cassa è alquanto curvata verso l'interno dello spazio tra i tre elementi del telaio, ma nel secolo XVI può anche essere diritta (cfr. inv. 1765). La colonna ha spesso una curvatura verso l'esterno (inv. 1764, scheda 135, e 1765, scheda 134). Nel secolo XVII vengono introdotte alcune innovazioni. La cassa è ormai quasi sempre diritta ed è composta di un certo numero di doghe (generalmente tra cinque e nove). La costruzione della cassa con doghe (inv. 1764; ancora nel secolo XVIII: inv. 1828, scheda 136, e Museo Davia Bargellini, inv. 1020) è un principio assunto dalla liuteria. La cassa è ormai coperta d'una tavola di conifera. Inizialmente le fibre della tavola sono longitudinali (inv. 1764), ma dalla seconda metà del secolo XVII in poi le fibre della tavola sono trasversali (ad esempio inv. 1828, e Museo Davia Bargellini, inv. 1020), il che stabilizza di più lo strumento. Dalla seconda metà del secolo XVII in poi la colonna è anche diritta.
Generalmente l'arpa con una colonna diritta ha anche un piede, su cui sono montate la cassa e la colonna, eventualmente con piedini. In questa collezione inv. 1765 non ha piede; mv. 1764, con una colonna leggermente curvata, ha piedini, ma il listello di supporto sotto di essi probabilmente non è originale.
Il numero delle corde aumenta sempre di più: può crescere sino a 33, con l'ingrandimento dell'ambito verso i bassi che richiedono corde più lunghe. Dall'uso di corde più lunghe nei bassi risulta un cambiamento nelle proporzioni delle arpe, inizialmente la colonna è poco più alta della cassa, ma con l'estensione dell'ambito verso i bassi la colonna deve essere più alta. La proporzione tra l'altezza della colonna e la lunghezza della cassa cresce da 1: 1 a 1,3 o 1,4: 1, in certi casi a 1,6 o 1,7: 1.
Le arpe trattate fin qui sono sempre diatoniche. Quando si suona in Do maggiore, sono a disposizione del suonatore le note di questa scala. Se il suonatore vuole suonare un Fa#, è possibile accordare i Fa a Fa#, ma allora la nota Fa non è più a sua disposizione.
B. Le arpe cromatiche sino alla prima metà del secolo XIX
Già nel '500 ci sono esperimenti per rendere l'arpa cromatica. Sono incerte le testimonianze di Johannes Cochläus (1511) sull'arpa triplici chordarum ordine in Inghilterra, e di Juan Bermudo (1555) sull'uso delle harpas de tres òrdenes nelle Fiandre. Dalla Spagna sono conservate e documentate arpe cromatiche (harpas de dos òrdenes) almeno dal Bermudo (1555) sino a Pablo Nassarre (1724). Sull'arpa cromatica in Irlanda ci sono testimonianze presso Vincenzo Galilei (1581) e Michael Praetorius (1619), ma sembra che in questo paese l'arpa cromatica non abbia mai destato l'entusiasmo dei suonatori.
L'italia è il paese dove la cromatizzazione dell'arpa è stata realizzata con maggior intensità. L'arpa cromatica più semplice è il 1765 di questa collezione. Le note (e le corde) diatoniche in Do maggiore da Do1 a Do5 si trovano nella fila centrale; quelle cromatiche (Do#, Mib, Fa#, Sol#, Sib) in parte a destra (visto dal suonatore; le note della prima e seconda ottava), in parte a sinistra (visto dal suonatore, le note della terza e quarta ottava).
Un altro sistema s'incontra presso Vincenzo Galilei (1581): in una fila centrale si trovano le note diatoniche in Fa maggiore da Do1 a Re5, mentre le note cromatiche in Fa maggiore più raddoppiamenti delle note Re e La (quindi Do#, Re, Mib, Fa#, Sol#, La, Si) si trovano in parte in una fila a destra (visto dal suonatore; le note da Re1 a Do#3 ), in parte in una a sinistra (visto dal suonatore; le note da Re3 a Do#5).
Il principio del raddoppiamento delle note Re e La nelle file laterali sembra superfluo. È possibile che in origine le file laterali contenessero due coppie di note enarmoniche e che la loro composizione fosse: Do#, Re#, Mib, Fa#, Sol#, Lab, Sib. Per lo meno è così che si può interpretare il trattamento dell'arpa a tre registri di Bartolomeo Jobernardi (1634). Secondo questo autore le file laterali contengono le note diatoniche e quella centrale quelle cromatico-enarmoniche.
Una disposizione simile s'incontra nella famosa arpa estense, conservata presso la Galleria Estense a Modena. Lo strumento fu costruito, per incarico di Alfonso II d'Este, duca di Ferrara, da Giovanni Giacometti (Giacomelli, Jacometti, Jacomelli, un Bresciano chiamato "del Violino") a Roma nel 1581.
Sembra che l'arpa cromatica sia stata infatti un'invenzione realizzata per la prima volta a Roma. Marin Mersenne descrive l'arpa cromatica nel 1636 (Traité des instrumens, pp. 169-171 e 215-216), sviluppata secondo questo autore da Luca Antonio Eustachio ("Luc Anthoine Eustache") e Orazio Michi ("Horace Michi") di Napoli, e costruita da Stefano Landi ("Estienne Landy") di Roma. Poco si sa su Luca Antonio Eustachio. Orazio Michi fu suonatore d'arpa e napoletano, ma la sua carriera incominciò dopo il suo trasferimento a Roma nel 1613. E Stefano Landi fu compositore e suonatore d'arpa, non costruttore di tali strumenti. Mersenne aveva ricevuto un'arpa cromatica da Jean Jacques Bouchard, un parigino ai servigi del Cardinale Francesco Barberini a Roma. Entra qui nella storia dell'arpa cromatica la famiglia Barberini.
Nei casi citati la fila delle note diatoniche si trova nel centro, mentre le note cromatiche si trovano in una fila a destra nei bassi, a sinistra nei soprani. La tappa successiva fu il rovesciamento di questa disposizione: la fila centrale contiene le note cromatiche in Fa maggiore più i raddoppiamenti dei Re e La. Le file delle note diatoniche - più usate di quelle cromatiche - si trovano "fuori" e sono facilmente raggiungibili per le mani. L'esempio più famoso d'un tale strumento è l'arpa Barberini, ormai in possesso del Museo Nazionale degli Strumenti Musicali a Roma. L'arpa Barberini fu costruita probabilmente tra il 1632 e il 1639 sotto il pontificato di Maffeo Barberini, papa Urbano VIII.
L'arpa Barberini ha un ambito da Do1 a Mi5. Le corde diatoniche in Fa maggiore da Do1 a Mi4 si trovano in una fila sinistra (visto da chi suona), facilmente raggiungibili per la mano sinistra. Nel centro si trova la fila delle note cromatiche in Fa maggiore più i raddoppiamenti dei Re e La (quindi Do#, Re, Mib, Fa#, Sol#, La, Si) da Re1 a Si4. Una fila a destra del centro contiene le note diatoniche in Fa maggiore da Re2 a Mi5, facilmente raggiungibili per la mano destra. Nell'arpa Barberini per la metà dell'ambito approssimativamente (da Re2 a Mi4) sono chiaramente da distinguere tre file di corde, entrambe le file diatoniche (a sinistra e a destra) non raggiungono le quattro ottave più una terza maggiore dell'ambito completo.
Il 1764 di questa collezione, probabilmente costruito tra il 1615 e il 1625, ha tre file complete di corde. L'ambito è di Do1-Do5; nel centro c'è la fila cromatica coi raddoppiamenti dei Re e La (quindi Do#, Re, Mib, Fa#, Sol#, La, Si) da Do#1 a Sib4; a sinistra e a destra ci sono due file complete di note diatoniche da Do1 a Do5.
Domenico Zampieri ("il Domenichino", 1581-1641), bolognese di nascita, deve avere conosciuto l'arpa cromatica di tre ordini già prima del suo soggiorno a Roma ai servigi della corte papale dal 1621 al 1623. Arpe cromatiche figurano in quattro dei suoi dipinti e in vari disegni. I dipinti sono: il "David che suona l'arpa" (1619-1621), ora nel castello di Versailles; il "Martirio di S. Agnese" (1625) nella Pinacoteca Nazionale a Bologna; l'affresco con la "Danza di David" nella cupola della cappella Bandini nella chiesa di S. Silvestro al Quirinale a Roma (1625-1629); la "Madonna coi Santi Giovanni Evangelista e Petronio" (1626-1629), ora nella Galleria di palazzo Barberini a Roma. Nel 1638 Domenichino scrisse poi una lettera da Napoli a Francesco Albani a Bologna nella quale c'informa che ha costruito un liuto e un cembalo, e che adesso fa costruire un'arpa con tutti li suoi generi Diatonico, Cromatico & enarmonico.
Arpe cromatiche sono costruite in Italia occasionalmente sino alla fine del secolo XVIII, e sono anche conosciute in Inghilterra nei secoli XVII e XVIII, inoltre nel Galles e nell'Europa centrale e settentrionale dal '600 sino alla prima metà del secolo XIX. Le arpe cromatiche non hanno mai avuto molto successo. L'incomodo consisteva sempre nel numero delle corde. L'arpa inv. 1765 ha "solo" 49 corde; l'arpa di Galilei ne ha 58, l'arpa estense "solo" 49, l'arpa Barberini 74 e l'arpa inv. 1764 di questa collezione addirittura 86 corde. Con un numero così notevole di corde esse sono troppo vicine l'una all'altra, e inoltre le corde dell'ordine centrale sono sempre difficilmente raggiungibili. Poi, un così grande numero di corde esercita una tensione notevole soprattutto sulla tavola armonica e sul modiglione.
Per tali ragioni la maggior parte delle arpe in uso è rimasta, sino ad oggi, diatonica, benché questi strumenti fossero provvisti di mezzi per mettere a disposizione del suonatore anche le note cromatiche.
C. La cromatizzazione dell'arpa diatonica. L'arpa Erard
Nella seconda metà del secolo XVII fu inventata, probabilmente in Tirolo, l'arpa a ganci. Una tale arpa è sempre diatonica, ma accanto ad alcune corde sono introdotti nel modiglione dei ganci che possono essere girati, e in tal caso toccano le corde corrispondenti, che sono raccorciate e il cui suono è rialzato d'un semitono. Lo svantaggio d'un tale sistema è che occorre sempre una mano per girare i ganci, la quale per un breve intervallo non è a disposizione per pizzicare le corde.
La soluzione del problema è offerta tramite un sistema con pedali che per mezzo di tiranti agiscono sulla nuova meccanica nel modiglione. S'intende che la maggior parte delle arpe a pedali abbia un piede, in cui questi sono montati.
La prima realizzazione di un'arpa a pedali, intorno al 1720, è dovuta a un membro della famiglia Hochbrucker (Jacob oppure Georg) a Donauwörth, sul Danubio tra Augusta e Norimberga. Nel suo stato definitivo lo strumento ha sette pedali. Questi sono congiunti alla meccanica nel modiglione mediante tiranti che passano attraverso la colonna. Quest'ultima è ormai diritta e fatta in due pezzi di legno duro scavati, poi incollati. Lo spazio scavato serve per lasciar passare i tiranti.
Per tutte le corde (o quasi) ci sono uncini mobili nel modiglione. Quando il suonatore preme un pedale, gli uncini di tutte le corde della stessa qualità (tutti i Mib, tutti i Fa ecc.) vengono tirati contro le corde corrispondenti, che poi vengono strette contro un tasto di metallo sì che le corde in questione siano raccorciate e il loro suono sia rialzato d'un semitono.
Dato che ogni pedale può agire solo una volta sulle corde corrispondenti, una tale arpa a pedali è chiamata a movimento semplice. Una tale arpa è normalmente accordata in Mib maggiore. Con l'azione dei pedali corrispondenti, i Mib possono essere rialzati a Mi, i Fa a Fa#, i Sol a Sol#, i Lab a La, i Sib a Si, i Do a Do# i Re a Re#. Così sono a disposizione del suonatore le tonalità con tre bemolli e quattro diesis. La disposizione dei pedali da sinistra a destra è: Re - Do - Si / (centro dell'arpa)/ Mi - Fa - Sol - La. L'arpa a pedali a movimento semplice fu suonata in pubblico per la prima volta a Parigi nel 1749 e fece subito furore. Un gran numero di compositori scriveva opere per lo strumento, tra i quali il più famoso fu Mozart che durante la sua sosta parigina nel 1778 compose il suo concerto per flauto traverso, arpa e orchestra per il duca de Guines e sua figlia. Un numero notevole di costruttori fu attivo a Parigi nella seconda metà del secolo XVIII e ancora all'inizio del XIX con nomi in parte palesemente non francesi: Jean-Henri Naderman e i suoi figli Pierre-Joseph e Henri, Sébastien-B. Renault, François Châtelain, Godefroi Holtzman, Pierre-Joseph Cousineau e suo figlio Georges.
Vari miglioramenti furono applicati alle arpe a pedali a movimento semplice. Un'invenzione che rivoluzionò l'arpa a pedali in genere fu quella delle forcelle rotatorie che sostituirono gli uncini mobili. Questa invenzione è dovuta a Sébastien Erard, sul quale torneremo, e fu fatta nel 1769. Cousineau padre inventò le aperture sul retro della cassa per far uscire meglio il suono. A volte le aperture potevano essere chiuse per mezzo di battenti fatti funzionare con un ottavo pedale tra il pedale per Si e quello per Mi. Tali aperture senza e con battenti s'incontrano in alcune arpe a pedali a movimento semplice (aperture senza battenti nell'arpa Museo Davia Bargellini, inv. 1020).
Si distinguono due tipi di arpe a pedali a movimento semplice. Il primo tipo, fatto sino al 1805 all'incirca, ha una decorazione stile Luigi XVI e tra 35 e 39 corde (cfr. inv. 1828). Il secondo tipo, fatto nei decenni dal 1805 al 1825, ha una decorazione stile Impero e tra 40 e 43 corde (Museo Davia Bargellini, inv. 1020).
L'innovatore più importante per l'arpa fu indubbiamente Sébastien Erard, in parte a Parigi, in parte a Londra. Come s'è già detto, Erard incominciò a costruire arpe a pedali a movimento semplice, in cui introdusse le forcelle rotatorie per raccorciare le corde. Poi, utilizzò una specie di legno compensato per il modiglione; sui due lati di quest'ultimo due lastre di ottone abbracciavano la meccanica. Inoltre, dette alla cassa una sezione semicircolare, creando così una costruzione più robusta di quella precedente con doghe.
Finalmente, nel 1810 Erard ideò l'arpa a pedali a movimento doppio. Ogni corda è provvista di due forcelle rotatorie sul modiglione e può essere raccorciata due volte, rialzando il suono prima d'un semitono, poi d'un tono. Una tale arpa è accordata in Dob maggiore. Ognuna delle note può essere cambiata due volte:
Dob a Do e a Do#;
Reb a Re e a Re#;
Mib a Mi e a Mi#;
Fab a Fa e a Fa#;
Solb a Sol e a Sol#;
Lab a La e a La#;
Sib a Si e a Si#.
Così sono a disposizione del suonatore tutte le tonalità con sette bemolli (Dob maggiore) a sette diesis (Do# maggiore). Anche accordi con intervalli d'una terza minore o meno possono essere realizzati facilmente con una tale arpa, ad esempio Si# - Do - Re# - Mib - Fa# - Solb - La, oppure Do# - Re# - Mi# - Fa - Sol - La - Si. Resta un inconveniente il fatto che una partitura estremamente cromatica, o addirittura una semplice scala cromatica con una velocità più che moderata rimangono ineseguibili.
La ditta Erard produsse due tipi d'arpa a pedali a movimento doppio. Il primo tipo ha una decorazione stile Impero ("harpe grecque") con 43 corde (Mib0 a Mib6) (cfr. inv. M.C.P. 39386, scheda 137) e fu prodotto sino al 1840 circa. Il secondo tipo ha una decorazione neogotica ("harpe gothique") con 46 (Dob0 - Fab6) o 47 corde (Dobo - Solb6) (cfr. inv. M.C.P. 39385, scheda 138) e fu prodotto dal 1835 all'incirca. La disposizione dei pedali è sempre (da sinistra a destra): Re - Do - Si/ (centro dell'arpa)/ Mi - Fa - Sol - La.
Le arpe a pedali a movimento doppio hanno sempre aperture sul retro della cassa. Inizialmente ci possono essere battenti da aprire con un ottavo pedale. I battenti e l'ottavo pedale, però, caddero in disuso nel corso dell'Ottocento.
L'arpa a pedali a movimento doppio ideato dall'Erard con 47 corde è ancora oggi l'arpa normale. S'intende che è stato cambiato nel corso degli anni l'aspetto del mobile. Le arpe attuali hanno una lavorazione ben più semplice dei tipi menzionati sopra.
D. Le ultime arpe cromatiche. L'arpa Pleyel
L'impossibilità d'eseguire passaggi cromatici rapidi con l'arpa a pedali di Erard indusse Gustave Lyon, direttore della ditta Pleyel, Wolff, Lyon & Cie. a Parigi, su richiesta di Alphonse Hasselmans, professore d'arpa al Conservatorio Nazionale a Parigi, a riprendere un progetto per un'arpa cromatica di Jean-Henri Pape, brevettato nel 1843, ma a quell'epoca non eseguito. La nuova arpa di Pleyel, Wolff, Lyon & Cie. (cfr. inv. M.C.P. 24458, scheda 139) ha un ambito cromatico di Re0-Sol6. Le 46 corde diatoniche in Do maggiore sono attaccate al lato destro del modiglione e al ponticello sinistro sulla tavola; le 32 corde cromatiche invece sono attaccate al lato sinistro del modiglione e al ponticello destro sulla tavola. Le corde s'incrociano dunque pressappoco nel centro dello spazio tra gli elementi del telaio, con l'inconveniente che le corde troppo vicine tintinnano facilmente.
Il numero totale delle corde ammonta dunque a 78. Un numero così alto di corde ha, come s'è già detto a proposito dell'arpa cromatica dei secoli XVI e XVII, l'inconveniente di esercitare una tensione enorme sulla tavola e sul modiglione. Per contrastare questa tensione enorme, nell'arpa Pleyel il modiglione e la colonna sono interamente di metallo; inoltre, la cassa ha internamente rinforzi notevoli. Ponti pesanti, contrafforti e non meno di 24 molle spirali di metallo. Tutti questi elementi debbono contrastare una tensione di più di 1200 kg sulla tavola. S'intende che tali elementi contribuiscono ad aumentare il peso totale dello strumento (60 kg). Inoltre, i rinforzi pesanti irrigidiscono talmente le parti che dovrebbero contribuire all'aumento della risonanza (in primo luogo la tavola), che l'arpa Pleyel ha meno sonorità dell'arpa Erard. A prescindere da questi inconvenienti, resta il fatto che le voci composte per l'arpa diatonica Erard sono a volte difficilmente o non eseguibili con l'arpa cromatica Pleyel. Al più tardi nel 1953 lo strumento fu definitivamente abbandonato.
La tastiera sviluppata è un'invenzione della cultura occidentale e, sino al secolo XIX, è conosciuta solo nel territorio di questa civiltà. Una tastiera sviluppata è composta d'un certo numero di tasti mobili, ognuno dei quali corrisponde a una nota. La tastiera sviluppata fu applicata per la prima volta nella hýdraulis dell'antichità greca, una specie d'organo a tasti scorrevoli: tirando un tasto, il suonatore produceva una determinata nota; respingendolo, la terminava. Questo tipo d'organo, ancora in uso nell'impero bizantino, fu tramandato da quest'ultimo all'Europa occidentale: un tipo d'organo alquanto migliorato era conosciuto in Spagna nel secolo V, in Inghilterra intorno al '700, nel regno di Franconia nei secoli VIII e IX. Nel secolo XIII la tastiera con tasti scorrevoli fu sostituita con quella con tasti a pressione, dapprima più o meno in forma di tasti della macchina per scrivere odierna, ma già verso la fine del '200 anche in forma di semplici leve. Dalla fine del secolo XIII sino ad oggi tutte le tastiere di strumenti musicali sono composte di tasti a leva.
Il principio della tastiera sviluppata s'incontra dunque per la prima volta nell'organo. La tastiera a leve fu poi applicata dalla fine del '300 anche ai cordofoni. La maggior parte dei cordofoni con tastiera a leve consta di cetre in senso generico. Esiste un numero di varianti di tali cordofoni con tastiera a leve: importanti sono i clavicordi, che non s'incontrano in questa collezione e che perciò trascuriamo in questa sede; poi i cordofoni con tastiera a leve con corde pizzicate (clavicembali, spinette, arpicordi); i cordofoni con tastiera a leve con corde percosse (i vari pianoforti e i pianoforti a tangenti); infine i cordofoni con tastiera a leve con corde strofinate, non rappresentati in questa collezione e dunque non trattati in questa sede.
I cordofoni con tastiera a leve con corde pizzicate hanno sempre una cassa che può aver forme diverse, ma che appartiene sempre al tipo delle cetre in senso generico. Nella maggior parte degli strumenti di questa categoria le corde sono in posizione orizzontale. Il tasto è generalmente una leva con due bracci. Sul braccio posteriore si trova un salterell o o se ne trovano di più. Un salterello è una striscia di legno con una linguetta mobile all'estremità superiore. È immesso nella linguetta un plettro generalmente di penna d'uccello (in certi casi di ottone o di cuoio duro o morbido; oggigiorno i plettri sono spesso d'una varietà di plastica). Quando il tasto è in riposo, il plettro si trova sotto la corda corrispondente. Quando si preme il braccio anteriore del tasto, il braccio posteriore si alza col salterello, e il plettro pizzica la corda corrispondente. Quando si lascia il braccio anteriore del tasto, il braccio posteriore ricade nella posizione di partenza. Il plettro sfiora la corda corrispondente, ma, essendo tagliato a sbieco di sotto, scivola lungo la corda premendo indietro la linguetta mobile. Quando il plettro si trova di nuovo sotto la corda corrispondente, una molla di setola, di ottone (una striscetta o un filo) o di penna premono la linguetta nella posizione di partenza.
In uno dei bracci del salterello che si trovano ai due lati della linguetta, è immesso uno smorzatore di panno o di feltro, oppure uno smorzatore è immesso in entrambi i bracci. Ricadendo il salterello, lo smorzatore smorza (o gli smorzatori smorzano) la vibrazione della corda.
È possibile che uno strumento di questa categoria abbia un'unica fila di salterelli - un cosiddetto registro -, oppure che ne abbia di più. La terminologia dei registri è stata adottata dall'organo. Un registro che pizzica una serie di corde nel corista normale è chiamato 8'; un registro che pizzica una serie di corde all'ottava superiore del corista normale è chiamato 4' (da pronunciare: otto piedi, e quattro piedi rispettivamente). Questi due registri sono i più frequenti. Esistono altri registri - anche altri tipi di registri che cambiano non l'altezza, ma il timbro delle note -, che però trascuriamo in questa sede.
Un cordofono di questa categoria ha sempre una cassa (un corpo) composta del fondo, delle fasce, del pannello anteriore davanti alla tastiera, del listello frontale dietro di questa, del coperchio e del supporto o delle gambe. Le parti essenziali per il suono sono le corde; il somiere con le caviglie, con cui le corde sono accordate; per lo meno due ponticelli, su cui posano le corde e che determinano le loro porzioni vibranti; il listello d'attacco con le punte, con cui le corde sono attaccate; i salterelli coi plettri che pizzicano le corde; la tavola armonica con la sua cornice, la quale può avere in parte la funzione d'un listello d'attacco. Il ponticello sulla tavola armonica serve non solo a determinare le porzioni vibranti delle corde, ma anche a trasmettere le vibrazioni delle corde alla tavola armonica e così all'aria dentro la cassa. Un cordofono di questa categoria ha spesso un'unica tastiera. Certi tipi hanno due o persino tre tastiere, ma tali strumenti non sono rappresentati in questa collezione, sicché possiamo trascurarli in questa sede.
Per la vibrazione giusta della tavola, vi sono quasi sempre catene sotto di essa. La tensione delle corde sulla cassa può essere notevole. Per evitare che la cassa imbarchi, che la tavola armonica molto sottile sia danneggiata e il somiere sia strappato dai suoi sostegni e dalle fasce lunga e corta, è necessario che un cordofono di questa categoria abbia rinforzi interni. Nel caso ideale le catene della tavola armonica e i rinforzi dentro la cassa sono descritti. Per una tale descrizione è necessario aprire lo strumento o farne una radiografia. Dei tre strumenti descritti sotto, è nota la costruzione interna solo nel clavicembalo di Vitus de Trasuntinis.
La forma usuale dei cordofoni con tastiera a leve con corde pizzicate è il (clavi)cembalo. In questo tipo le corde sono orizzontali situate nel prolungamento delle leve dei tasti. Per le note basse sono necessarie lunghezze d'onda maggiori, quindi porzioni vibranti maggiori delle corde, e così nasce la forma d'ala con le corde più lunghe, basse, visto da chi suona, a sinistra. Nella maggior parte dei casi il cembalo ha cinque lati: le fasce lunga, posteriore, curva, corta e il lato anteriore. Subito dietro la tastiera si trova il somiere con le caviglie; dietro questo v'è la lista-guida del registro (vi sono le liste-guida dei registri); la tavola armonica copre il vano dietro la lista-guida (le liste-guida). Sulla tavola e sul somiere c'è almeno un ponticello. Quello sulla tavola è in gran parte quasi parallelo alla fascia curva, ma è generalmente piegato a gomito per le corde più basse.
Esiste un certo numero di scuole d'arte cembalaria, ognuna con caratteristiche autonome, ma non senza qualche misura d'interdipendenza tra di loro: la scuola italiana, quella dell'Europa centrale, quella dei Paesi Bassi meridionali, quella francese, quella della Gran Bretagna e dell'Irlanda, quella spagnola e quella portoghese. Altre scuole dipendono in gran parte da una scuola più o meno indipendente: la scuola scandinava, quella svizzera e quella alsaziana dipendono in gran parte dall'Europa centrale; la scuola dei Paesi Bassi settentrionali dipende maggiormente da Anversa e Bruxelles; la scuola coloniale dell'America del nord appena si stacca da quella inglese. Qua e là sono da intravedere anche certe differenze regionali: così in Germania si separano con l'andare degli anni le scuole del nord, del centro (Sassonia-Turingia) e del sud. In Francia sembra che ci siano caratteristiche speciali nel centro e nel meridione (Lione, Tolosa, Carpentras, Nizza) in confronto con la fattura parigina. E in Spagna s'intravedono le scuole della Castiglia (Madrid, Valladolid, Toledo) e dell'Andalusia (Siviglia).
S'intende che non possiamo elencare in questa sede le caratteristiche delle scuole nazionali o regionali. I tre clavicembali di questa collezione sono di provenienza italiana; perciò seguono qui alcune osservazioni soltanto riguardo a questa scuola.
Nella penisola italiana è difficile trovare caratteristiche regionali, come in Germania, Francia e Spagna. Si potrebbe dire che la costruzione di cembali con la disposizione 8' 4' s'incontrasse nel secolo XVI e nella prima metà del XVII maggiormente a Venezia, ma anche il cembalo inv. 1841, di provenienza romana, aveva in origine questa disposizione. La costruzione di cordofoni a tastiera con un numero di tasti nell'ottava da 19 in su è concentrata in parte a Venezia, e infatti Nicola Vicentino e Vitus de Trasuntinis, quest'ultimo costruttore del clavicembalo inv. 1766, furono veneti. Ma anche Napoli fu un centro di tale attività, con Scipione Stella e Ascanio Mayone. L'unico fenomeno davvero locale nel quadro dell'arte cembalaria italiana consiste in un tipo di virginale molto speciale prodotto solo a Napoli. Per il resto l'arte cembalaria italiana dimostra un'unità stilistica del tutto contraria alla divisione politica della penisola. Certi costruttori di forte individualità - come Domenico da Pesaro, Girolamo Zenti, Bartolomeo Cristofori, Giuseppe Maria Goccini - hanno un'importanza maggiore per lo sviluppo dell'arte cembalaria italiana che non le tradizioni regionali. La maggior parte dei clavicembali italiani ha una costruzione assai leggera, con fasce d'uno spessore tra 2,5 e 6 mm, applicate lateralmente al fondo. Nella maggior parte dei casi le fasce sono di cipresso, in alcuni casi di cedro; questi legni non si usano che raramente fuori dell'Italia. Generalmente le fiancate della tastiera, il listello davanti alla tastiera, il listello frontale, la barra sopra i salterelli, le sue sedi d'innesto, la tavola armonica e le cornici modanate delle fasce, del listello frontale e della tavola armonica sono dello stesso legno delle fasce.
Tali clavicembali leggeri hanno generalmente una cassa esterna (cassa levatoia, custodia) d'un legno meno pregiato (pioppo, tiglio, conifera): sono "levatori di cassa". Il clavicembalo 1841 e probabilmente anche lo strumento 1766 avevano in origine una tale cassa levatoia, che poi è andata perduta.
Tipici per l'Italia sono i cembali che danno l'impressione sbagliata di essere composti d'uno strumento e d'una cassa levatoia. Il corpo dello strumento stesso è fatto d'un legno meno pregiato come la cassa levatoia d'uno strumento normale. A tale corpo sono applicati in un legno più pregiato, generalmente cipresso, gli elementi seguenti: un'impiallacciatura alle fasce al di sopra della tavola armonica, eventualmente con una cornice modanata superiore; le fiancate da entrambi i lati della tastiera; il listello davanti alla tastiera; il listello frontale, eventualmente con una cornice modanata superiore; la barra sopra i salterelli e i suoi sostegni. Se inoltre la tavola armonica è dello stesso legno pregiato (nella maggior parte dei casi cipresso), la somiglianza con un clavicembalo con fasce sottili in una cassa levatoia è sorprendente. Nel suo libro del 1965 Frank Hubbard usa per un tale strumento l'espressione false inner-outer (non levatore di cassa). Un clavicembalo di questo tipo è quello di Ugo Annibale Traeri nel Museo Davia Bargellini.
Nel periodo che va dal 1520 sino al 1650 gli ambiti della tastiera più frequenti sono: Do1 - Do5 e Do1 - Fa5, con l'ottava corta. Dopo il 1650 s'incontrano ancora questi ambiti, ma sempre meno frequentemente, sino a poco dopo il 1750. Il termine "ottava corta" si riferisce alla seguente disposizione dell'ottava più bassa dell'ambito:
Infatti, il clavicembalo 1841 ha una tale ottava corta, in cui mancano dunque i tasti cromatici Do#, Mib, Fa# e Sol# nella prima ottava. Verso la fine del secolo XVII s'incominciò a sentire la mancanza per lo meno di alcuni di questi tasti cromatici. Per ottenere nell'ottava più bassa alcuni di tali tasti cromatici, sempre conservando l'ottava corta, a cui molti suonatori erano abituati, s'introdusse l'ottava corta con due tasti spezzati:
Una tale ottava s'incontra nel clavicembalo di Ugo Annibale Traeri nel Museo Davia Bargellini.
Sull'applicazione dei tasti spezzati per coppie enarmoniche (ad esempio Mib/Re#) e per la costruzione di tastiere con tutti i tasti cromatici ed enarmonici, si veda la nota biografica e storica dopo la descrizione del clavicembalo inv. 1766, scheda 141.
Esistono clavicembali italiani con una tastiera normale e con un unico registro 8'. L'applicazione di solo un registro diventa obbligatoria, quando cresce il numero dei tasti e quindi il numero delle corde. Con un numero di corde assai alto è impossibile moltiplicare tale numero per due con l'aggiunta d'un secondo registro, che farebbe imbarcare la cassa. Così si spiega il fatto che il clavicembalo 1766 con 125 tasti ha un unico registro 8'.
La disposizione più comune dei clavicembali italiani, però, è 8'8'. Tale disposizione s'incontrava in origine nel clavicembalo di Ugo Annibale Traeri nel Museo Davia Bargellini.
La disposizione 8'4' s'incontra in un certo numero di clavicembali del '500 e del primo terzo del '600, soprattutto in strumenti veneziani o comunque provenienti dall'Italia settentrionale. Anche clavicembali fatti in altre parti d'Italia possono avere questa disposizione, come testimonia quella originale del clavicembalo 1841 di questa collezione, benché 8'4' si trovi raramente nell'Italia centrale.
Generalmente i musicisti, e probabilmente anche il pubblico musicale italiano, sembra non apprezzassero molto il 4'. Dopo il 1630 s'incontra la disposizione 8'8'4' nell'Italia centrale, ma la percentuale dei clavicembali del secolo XVII con tale disposizione è piuttosto bassa. Inoltre, in molti clavicembali che avevano in origine la disposizione 8'4', il 4' fu sostituito con un secondo 8' in un'epoca successiva in vari casi, come si vede nello strumento 1841 di questa collezione.
S'intende che non è possibile trattare in questa sede le numerose varianti già esistenti nell'arte cembalaria italiana, per non menzionare le altre scuole. Quelli che vogliono informarsi su questa materia riguardo all'Italia potranno trovare una trattazione piuttosto dettagliata di questo soggetto in Tagliavini-Van der Meer (1986-87).
I cordofoni con tastiera a leve con corde percosse hanno una cassa che corrisponde in linea di principio a quella degli strumenti del gruppo precedente con corde pizzicate. In altre parole, anche tali strumenti appartengono al gruppo delle cetre in senso generico. Gli strumenti del gruppo da trattare qui hanno dunque corde percosse, nella maggior parte dei casi con martelletti. Generalmente il martelletto si trova sotto la corda corrispondente o le corde corrispondenti: la percussione della corda (delle corde) avviene il più delle volte dal di sotto.
Indubbiamente l'inventore di questo tipo di strumento fu il padovano Bartolomeo Cristofori (1655-1731), ma ai servigi del granprincipe Ferdinando de' Medici a Firenze dal 1690 sino alla morte del granprincipe nel 1713, poi custode della collezione di strumenti musicali della corte medicea. Cristofori già nel 1698 meditava un cordofono a tastiera a corde percosse con martelletti, e nell'inventario degli strumenti musicali del granprincipe redatto nel 1700 "l'arpicimbalo che fà il piano e il forte" che vi è menzionato fu indubbiamente il primo strumento di questo tipo. Il nuovo strumento fu descritto in un articolo di Scipione Maffei pubblicato nel Giornale dei Letterati d'Italia del 1711 sotto il titolo "Nuova invenzione d'un gravecembalo col piano, e forte..... ". Le prime opere per il nuovo strumento di Lodovico Giustini di Pistoia, pubblicate nel 1732, furono chiamate dal compositore "sonate da cimbalo di piano, e forte detto volgarmente di martelletti". Maffei e Giustini, considerando lo strumento come una variante del (grave)cembalo, non si rendevano conto che con questo strumento si era agli albori d'un tipo organologicamente nuovo che con l'andare d'un secolo avrebbe soppiantato totalmente i vecchi tipi del clavicordo, del clavicembalo, della spinetta e dell' arpicordo. Il termine "arpicimbalo" nell'inventario del 1700 veniva verosimilmente dal Cristofori stesso; ne segue che anche questo costruttore era appena conscio di aver creato qualcosa di fondamentalmente nuovo.
Nelle espressioni usate dal Maffei e dal Giustini si esprime bene il significato musicale. Negli strumenti con tastiera a leve con corde pizzicate (clavicembali, spinette, arpicordi) le sfumature dinamiche erano possibili quasi unicamente cambiando la registrazione. Invece con uno strumento a tastiera a leve con martelletti la forza dinamica d'una nota dipende dalla forza della percussione, quindi dalla forza del tocco. Così sono possibili, dipendenti dal tocco del suonatore, piano, forte, sfumature come fortissimo, pianissimo, mezzoforte, mezzopiano, poi anche il crescendo e il decrescendo. Con l'andare degli anni lo strumento prese il nome di fortepiano o pianoforte (oggi solo quest'ultimo), ovvero piano.
È incontestabile che il Cristofori sia stato il primo inventore del pianoforte, ma un poco più tardi due costruttori d'oltralpe ebbero, indipendentemente dal Cristofori, l'idea di costruire uno strumento con tastiera a leve con la possibilità di variare la dinamica delle note con la percussione delle corde tramite martelletti. Jean Marius a Parigi nel 1716, e Christoph Gottlieb Schroeter a Dresda nel 1717 idearono vari tipi di strumenti a martelletti, e tra questi ci fu uno strumento con martelletti percuotenti le corde dal di sopra ideato da ambedue i costruttori. Questo fenomeno si spiega probabilmente con la supposizione che sia Marius sia Schroeter avessero l'idea di costruire uno strumento con tastiera a leve con corde percosse dal timpano con martelletti dal di sopra. Non si dimentichi che il salterio d'oltralpe e a Nord dei Pirenei veniva suonato sempre con martelletti (timpani) e non, come in Italia e in Spagna, pizzicato con plettri. Ora, un suonatore del salterio in Germania o in Francia percuoteva le corde del suo strumento con martelletti dal di sopra.
Proprio negli anni precedenti le invenzioni del Marius e dello Schroeter il salterio percosso era stato diffuso dal suonatore Pantaleon Hebenstreit (1667-1750). Questi iniziò la sua carriera musicale nel 1697 a Lipsia; nel 1698 ebbe un incarico alla corte di Weissenfels (nella Turingia attuale); nel 1706 ebbe un impiego alla corte di Eisenach (la città nativa di Johann Sebastian Bach, pure nella Turingia attuale); e nel 1714 diventò musicista di camera alla corte sassone di Dresda. Nel 1733 dovette smettere di suonare a causa del peggioramento della sua vista. Negli anni 1709-1714 fece una serie di giri artistici sino a Vienna, e già nel 1705 aveva visitato Parigi, dove suonò davanti a Luigi XIV. Si noti che l'arte dell'Hebenstreit era conosciuta in Germania e Francia, non in Italia. Egli può aver ispirato Marius e Schroeter, ma non Cristofori, il quale ad ogni modo fu il primo ad inventare il "cimbalo di piano, e forte, detto volgarmente di martelletti".
I primi pianoforti di Cristofori, di cui ne sono conservati tre con le date di 1720, 1722 e 1726, hanno una cassa come quella del cembalo, dunque in forma d'ala con le corde lunghe, visto da chi suona, a sinistra. Oggi tale strumento si chiama pianoforte a coda. In Italia Cristofori ebbe due successori, Giovanni Ferrini e Domenico del Mela, entrambi a Firenze. Il Ferrini costruiva, oltre a clavicembali e spinettoni (una forma speciale di spinetta traversa) anche pianoforti e - un'innovazione - combinazioni di clavicembalo e pianoforte. Un tale strumento combinatorio con la data di 1746 fa parte della collezione di Luigi Ferdinando Tagliavini a Bologna. Il primo pianoforte verticale uscito dall'officina di Domenico del Mela con la data 1739 è conservato nella collezione del Conservatorio Luigi Cherubini a Firenze. Dopo questi albori fiorentini terminò la prima produzione italiana così originale ed interessante di pianoforti. La produzione italiana della fine del secolo XVIII è basata su modelli d'oltralpe.
In Germania invece fu accolto con grande entusiasmo il nuovo strumento. Non i modelli dello Schroeter furono realizzati, bensì fu seguìto l'esempio del Cristofori, prima da Gottfried Silbermann a Freiberg in Sassonia, non lontano da Dresda, dal 1736 - anche Johann Sebastian Bach conosceva i suoi pianoforti a coda, di cui non era del tutto entusiasta -, poi da suo nipote Johann Heinrich Silbermann a Strasburgo.
Frattanto probabilmente un gran numero di costruttori tedeschi (è sconosciuto il numero esatto, perché la maggior parte degli strumenti conservati dalle loro officine è adespota) aveva incominciato ad applicare una meccanica a percussione con martelletti a un altro strumento a tastiera estremamente popolare in Germania, il clavicordo. Questo aveva una cassa rettangolare con la tastiera su uno dei lati lunghi a sinistra del centro, con corde orizzontali quasi perpendicolari alla direzione delle leve dei tasti e, visto da chi suona, con la corda più lunga davanti e quella più corta indietro. Tale pianoforte con la cassa rettangolare si chiama pianoforte rettangolare.
Un pianoforte di questo tipo appartiene al Museo Davia Bargellini, tre sono del Civico Museo Bibliografico Musicale. Uno strumento appartenente a quest'ultima istituzione porta la firma di Josephus Glonner di Monaco di Baviera. Gli altri tre strumenti sono anonimi e possono essere di provenienza tedesca, benché uno degli strumenti del Civico Museo Bibliografico Musicale a causa dell'uso di cipresso impiegato in piccole quantità, potrebbe anche essere un prodotto italiano coniato su un modello tedesco.
Il clavicordo aveva due funzioni in Germania. In primo luogo era uno strumento da esercizio, specie per gli organisti, e da composizione per i compositori; in secondo luogo, a partire dal 1750 all'incirca, era apprezzato anche con una propria funzione estetica a causa della qualità cantante del timbro, delle possibili sfumature dinamiche entro limiti ristretti, e anche della possibilità d'eseguire una specie di tremolo. Anche il pianoforte rettangolare aveva in molti casi la funzione di strumento da esercizio e da composizione. Con un pianoforte rettangolare non era possibile l'esecuzione della specie di tremolo tipico per il clavicordo, e il timbro non aveva la qualità cantante di quello del clavicordo, ma il pianoforte rettangolare aveva possibilità di sfumature dinamiche notevolmente maggiori di quelle del clavicordo. Per tale ragione il pianoforte fu adottato nel secolo XVIII anche con una propria funzione estetica.
I costruttori tedeschi sperimentavano su larga scala la meccanica, inizialmente soprattutto quella dei pianoforti rettangolari. In questa sede non è possibile dare un'idea della varietà straordinaria di tentativi in questo campo, introdotti da questi costruttori. Qui deve essere sufficiente distinguere tra due tipi di meccanica:
1. la Prellmechanik. In questa meccanica i martelletti sono montati sui bracci posteriori delle leve dei tasti. Le teste dei martelletti sono volte verso chi suona. Dalla parte opposta, quella delle estremità posteriori dei martelletti, si trova una lista che delimita la corsa delle estremità posteriori dei martelletti. Quando, col rialzamento del braccio posteriore d'una leva, la corsa dell'estremità posteriore d'un martelletto è delimitata, la testa all'estremità anteriore è scagliata contro la corda corrispondente (le corde corrispondenti). Ci sono innanzitutto due metodi per montare un martelletto al braccio posteriore della leva d'un tasto:
a) il metodo più frequente consiste nella montatura del martelletto in una capsula sulla faccia superiore della leva d'un tasto. Tali capsule erano in origine di legno; tra il 1775 e la fine del secolo XVIII l'ottone veniva usato sempre di più come materiale per le capsule, e nel secolo XIX s'incontra solo l'ottone. Il pianoforte rettangolare del Museo Davia Bargellini e quello di Josephus Glonner del Civico Museo Bibliografico Musicale hanno una Prellmechanik con martelletti montate in capsule di legno;
b) un metodo più primitivo, usato solo nel secolo XVIII, consiste nella montatura del martelletto su un pernio al lato della leva d'un tasto. I due pianoforti anonimi del Civico Museo Bibliografico Musicale hanno una tale Prellmechanik;
2. la Stossmechanik. I martelletti sono montati in un pancone separato sopra la tastiera. Sui bracci posteriori delle leve dei tasti sono montati sollevatori che alzano i martelletti corrispondenti e che scagliano questi contro la corda corrispondente (le corde corrispondenti). Sono da distinguere due varianti di questa meccanica:
a) nella variante più frequente il pancone dei martelletti si trova dal lato della tastiera; i martelletti montati nel pancone sono voltati dal lato opposto. Questa meccanica fu il punto di partenza d'uno sviluppo notevole sino alla meccanica del pianoforte moderno;
b) una variante in uso solo nel secolo XVIII ha un pancone che si trova di dietro; i martelletti montati nel pancone sono voltati verso chi suona. Questa meccanica s'incontra nel pianoforte rettangolare più antico datato, fatto da uno Johann Socher a Sonthofen (non lontano da Füssen, più volte menzionata nel capitolo sui liuti) nel 1742. Questa variante, che può avere delle variazioni nei dettagli, non sopravvisse agli albori, e non fu il punto di partenza per uno sviluppo ulteriore.
I costruttori tedeschi poi ripresero la produzione di pianoforti a coda, a cui incominciarono ad applicare le meccaniche descritte sopra. Un problema di cui si occupavano particolarmente fu quello dello scappamento. Con le meccaniche semplici descritte sopra è difficile fare ripetizioni rapide d'una stessa nota, anche necessarie ad esempio nei trilli. Per creare la possibilità di tali ripetizioni, è necessario introdurre lo scappamento: anche se il suonatore tiene un tasto premuto in basso, in uno strumento con lo scappamento il martelletto ricade subito nella posizione di partenza ed è pronto per un nuovo colpo.
Johann Andreas Stein di Augusta creò prima del 1777 una Prellmechanik con lo scappamento. Questa meccanica si chiama tedesca (perché ideata in Germania) oppure viennese, perché un gran numero di costruttori viennesi applicò tale meccanica sino alla seconda metà del secolo XIX. La meccanica viennese fu applicata prima solo a pianoforti a coda, poco dopo anche a quelli rettangolari.
La meccanica del Cristofori, come pure quella del Ferrini e dei Silbermann, fu una Stossmechanik estremamente raffinata, già con lo scappamento, tra altre cose. Tutte le Stossmechanik semplici senza scappamento furono semplificazioni della meccanica ponderata e escogitata di Cristofori e dei suoi imitatori.
La produzione di pianoforti con Stossmechanik semplice senza scappamento - creata dunque da costruttori tedeschi - fu introdotta in Inghilterra da dodici costruttori tedeschi che emigrarono per evitare gli orrori della Guerra dei Sette Anni, e si stabilirono a Londra intorno al 1760. John Broadwood fornì anche la Stossmechanik d'uno scappamento negli anni 1780. Tale meccanica è chiamata meccanica inglese.
In Francia, dopo il Marius, malgrado alcuni pianoforti usciti dall'officina di Pascal Taskin, non v'era un grand'entusiasmo per il pianoforte. "Jamais ce nouveau-venu ne détrônera le majestueux clavecin", avrebbe detto il compositore Claude-Bénigne Balbastre a Taskin sentendo suonare per la prima volta un pianoforte. Che Balbastre avesse torto, fu soprattutto a causa d'un costruttore davvero geniale, Sébastien Erard, di cui avemmo già occasione di parlare a proposito delle arpe.
Sébastien Erard costruì nel 1777 il primo pianoforte in Francia, un pianoforte rettangolare con una semplice Stossmechanik senza scappamento. Erard fuggì a Londra davanti alla rivoluzione francese, e vi fondò uno stabilimento nel 1792. In Inghilterra egli incominciò a costruire pianoforti con la meccanica inglese, quindi con scappamento. Nel 1796 tornò a Parigi, e introdusse tali strumenti anche in Francia. Questi pianoforti dell'Erard differivano dagli strumenti inglesi solo nei dettagli.
In Francia continuò la produzione di pianoforti con una tale meccanica sino agli anni 1850. Il pianoforte a coda della ditta Pleyel, circa 1844, del Civico Museo Bibliografico Musicale ne è un esempio.
Intanto Sébastien Erard continuò a cercare una soluzione del problema d'uno scappamento ancora meglio funzionante. Nel 1808 egli sviluppò una prima soluzione con la meccanica chiamata - conformemente a un elemento costitutivo - meccanica a staffa. Sono assai rari i pianoforti di Erard con la meccanica a staffa, ma uno strumento a coda con tale meccanica, datato 1811, è proprietà del Civico Museo Bibliografico Musicale.
Nel 1821 Erard ebbe il brevetto per la meccanica a doppio scappamento che sarebbe rimasto - con qualche piccolo cambiamento - il sistema di meccanica ancora oggi applicato ai pianoforti a coda. Il Civico Museo Bibliografico Musicale possiede due pianoforti a coda col doppio scappamento, quello di Erard col numero di produzione 47613, quindi costruito intorno al 1874, e quello di Henri Herz col numero di produzione 13481, quindi del 1860 circa.
Il sistema Erard di doppio scappamento diventò ovunque, come s'è già detto, quello normale per pianoforti a coda dopo la metà del secolo XIX, con l'eccezione di Vienna, dove si continuò a costruire pianoforti con la meccanica viennese a semplice scappamento sino al 1909, quando ebbe il sopravvento anche nella capitale imperial regia la meccanica a doppio scappamento.
L'ambito della tastiera si va lentamente aumentando. Nel secolo XVIII s'incontrano spesso pianoforti rettangolari con l'ambito Do1 - Fa5 (54 tasti), ad esempio il pianoforte rettangolare di Glonner del Civico Museo Bibliografico Musicale. Anche altri ambiti con meno di cinque ottave esistono nel '700, ad esempio in uno dei pianoforti rettangolari anonimi del Civico Museo Bibliografico Musicale (ambito Si0 - Sol5, 57 tasti). Nella seconda metà del secolo XVIII sino agli anni 1790, l'ambito di cinque ottave da Fa0 a Fa5 (61 tasti) diventa normale, l'ambito dunque del pianoforte rettangolare del Museo Davia Bargellini, e dell'altro adespota del Civico Museo Bibliografico Musicale. Negli anni 1790 incomincia a crescere l'ambito. Diamo qui uno schema approssimativo dello sviluppo:
1795-1803 Fa0 - Sol5 (63 tasti)
1795-1808 Fa0 - Do6 (68 tasti)
1800-1820 in Inghilterra Do0 - Do6 (73 tasti)
1808-1818 Fa0 - Fa6 in altri paesi (73 tasti; cfr. Erard 1811)
1818-1839 Do0 - Fa6 (78 tasti)
1840-1850 Do0 - Sol6 (80 tasti; cfr. Pleyel ca. 1844)
1850-1855 Do0 - La6 (82 tasti)
dopo il 1855 La1 - La6 (85 tasti; cfr. Erard 1874 e Herz).
Oggi i pianoforti hanno generalmente l'ambito La1 - Do7 (88 tasti).
Ci sono vari sistemi per smorzare le corde; questi possono essere divisi a seconda della posizione degli smorzatori che possono agire sulle corde dal di sopra o dal di sotto. Nei pianoforti di Cristofori, Ferrini e dei Silbermann gli smorzatori hanno la forma di salterelli da cembalo con teste rivestite di cuoio posanti sopra sulle corde.
Tali smorzatori s'incontrano anche negli strumenti con meccanica a staffa dell' Erard; all'estremità superiore di ognuno degli smorzatori c'è una guarnizione di cuoio e feltro posante sulle corde. - Gli smorzatori nei pianoforti a coda con meccanica inglese hanno essenzialmente lo stesso tipo di smorzatori, composti d'un blocchetto di legno alle estremità inferiore e superiore, con un filo di metallo congiungente i due blocchetti, e con una guarnizione di feltro sotto il blocchetto superiore che posa sulle corde. Il pianoforte a coda di Pleyel con la meccanica inglese ha tali smorzatori. Questo tipo fu applicato ancora dall'Erard in alcuni dei suoi pianoforti a doppio scappamento, ad esempio nello strumento del Civico Museo Bibliografico Musicale, fatto intorno al 1874.
Un altro sistema di smorzatori agenti di sopra sulle corde consiste in leve attaccate con perni o cerniere a un listello nella parte posteriore della cassa, oppure alla fascia posteriore, e posanti con le teste con una guarnizione di cuoio, panno o feltro sulle corde. Il numero delle leve corrisponde normalmente a quello dei tasti; le leve vengono alzate con sollevatori sui bracci posteriori delle leve dei tasti. Smorzatori di questo tipo s'incontrano nel pianoforte rettangolare del Museo Davia Bargellini e in quello di Glonner del Civico Museo Bibliografico Musicale.
Gli smorzatori funzionanti di sotto possono anche appartenere a tipi diversi. Il sistema più semplice è rappresentato da smorzatori in forma di leve a due bracci con una guarnizione di cuoio, panno o feltro all'estremità che preme di sotto contro le corde. Normalmente, con l'azione del tasto è rialzata l'estremità opposta a quella guarnita dello smorzatore, sicché l'estremità guarnita viene abbassata e dunque allontanata dalle corde.
Un altro sistema consiste in un'asticciola con feltro all'estremità superiore che preme di sotto contro le corde. Quando si preme il tasto, l'asticciola è tirata in basso e il feltro è allontanato dalle corde. Questo è il sistema di smorzatori in molti pianoforti con una meccanica a doppio scappamento, ad esempio nel pianoforte a coda dell'Herz.
Il clavicordo, da cui fu derivato il pianoforte rettangolare, ha normalmente ordini di due corde unisone, percosse dalla stessa tangente. Anche il pianoforte sino al 1780 all'incirca - sia quello a coda, sia quello rettangolare - ha nella maggior parte dei casi martelletti che percuotono due corde unisone. Due pianoforti rettangolari del Civico Museo Bibliografico Musicale sono bicordi; il pianoforte rettangolare del Museo Davia Bargellini e uno degli strumenti di questo tipo del Civico Museo Bibliografico Musicale hanno alcune corde singole nei bassi, mentre il resto dello strumento rimane bicorde.
Negli ultimi due decenni del secolo XVIII gli ordini rimangono in linea di principio doppi, ma negli acuti v'è un numero di ordini triplici. Il pianoforte a coda di Pleyel rappresenta già uno stadio più evoluto: degli 80 ordini di corde solo 17 sono doppi, gli altri 63 sono triplici. Il pianoforte di Erard con la data 1811 ha un'incordatura triplice per tutto l'ambito.
I pianoforti a doppio scappamento hanno generalmente un numero di corde singole nei bassi (Erard 1874: 9; Herz 5), poi un numero di ordini doppi (Erard 1874: 8; Herz 12), mentre il resto degli ordini è triplice (Erard 1874 e Herz: 68).
Vi sono molti fattori che determinano il timbro del pianoforte. Tra questi un elemento di un'importanza estrema è la copertura dei martelletti. Alcuni pianoforti precoci hanno martelletti con teste di legno senza copertura. In tali casi i costruttori non hanno voluto sacrificare niente del timbro chiaro e diafano del clavicembalo. Il pianoforte rettangolare di Glonner del Civico Museo Bibliografico Musicale ne è un esempio.
In molti casi, però, nel secolo XVIII e ancora in numerosi strumenti del XIX le teste dei martelletti hanno una copertura di uno o più strati di cuoio. Il cuoio produce un timbro meno duro di quello realizzato con martelletti senza copertura, ma sempre notevolmente più chiaro di quello del pianoforte moderno. Il pianoforte rettangolare del Museo Davia Bargellini e i due anonimi del Civico Museo Bibliografico Musicale hanno martelletti con teste coperte di cuoio, e tali martelletti s'incontrano ancora nel pianoforte a coda di Erard del 1811.
Nel 1826 fu brevettato da Jean Henri Pape, un costruttore di provenienza tedesca, attivo a Parigi, l'uso di feltro come copertura delle teste dei martelletti. Prima in Francia, poi con una eccezione anche altrove, fu adottato il feltro come copertura dei martelletti (Pleyel, Erard 1874, Herz), in parte ancora su una base di cuoio. S'intende che i martelletti coperti di feltro producono un timbro più dolce, ma anche meno chiaro di quello realizzato con martelletti coperti di cuoio. Questo suono alquanto opaco non piaceva ai costruttori viennesi che continuarono a usare cuoio come copertura delle teste dei martelletti. Un suonatore che esegue opere di compositori attivi a Vienna deve sempre tenere a mente che un timbro chiaro fu quello per cui scrivevano i compositori a Vienna, e che con tale timbro persino le opere di Johannes Brahms rimanevano sempre diafane! Nella seconda metà del secolo XIX, però, anche i costruttori viennesi cedettero all'uso di feltro.
Già i primi pianoforti avevano registri, mezzi per cambiare il timbro o il volume del suono. Il registro più importante per aumentare il volume del suono è il "forte": quando lo si fa azionare, vengono alzati tutti gli smorzatori, e tutte le corde dello strumento hanno allora la funzione di corde di risonanza. Il "forte" si trova nel pianoforte rettangolare del Museo Davia Bargellini e in quello di Glonner del Civico Museo Bibliografico Musicale, poi in tutti i pianoforti a coda di quest'ultima istituzione.
Molto interessante e raro è un registro "forte" - per così dire - negativo nei due pianoforti rettangolari anonimi del Civico Museo Bibliografico Musicale. Qui gli smorzatori in riposo non vengono premuti contro le corde; solo quando si fa azionare il registro in questione, gli smorzatori sono stretti contro le corde, la cui risonanza allora è tolta. Qui il registro è quindi un mezzo per diminuire il volume del suono. Vogliamo accennare ancora a quattro mezzi per diminuire il volume d'un pianoforte. In primo luogo v'è il registro "liuto": quando lo si fa azionare, un listello coperto di panno o feltro viene premuto dal di sotto contro le corde per smorzare il volume e anche per cambiare il timbro. Il registro "liuto" s'incontra nel pianoforte rettangolare di Glonner del Civico Museo Bibliografico Musicale.
Un altro mezzo per diminuire il volume è il registro "arpa": quando lo si fa azionare, un listello con frangia sulla faccia inferiore viene abbassato sulle corde, smorzandone il volume e cambiandone il timbro. Un tale registro si trovava in origine nei due pianoforti anonimi del Civico Museo Bibliografico Musicale.
Un terzo mezzo per diminuire il volume del suono - un mezzo che ne cambia anche il timbro notevolmente - è il "pianissimo": quando si fa azionare questo registro, un listello con una guarnizione di panno o di feltro è spinto tra le teste dei martelletti e le corde. S'intende che questo registro - l'inserzione di panno o feltro- ha senso unicamente quando le teste dei martelletti non sono coperte di feltro, ma sono di legno non coperto o di legno coperto di cuoio. Il registro "pianissimo" si trova nel pianoforte rettangolare di Glonner del Museo Bibliografico Musicale.
Un quarto mezzo da menzionare qui per diminuire il volume - e sino a un certo punto anche per cambiare il timbro - del suono è l'"una corda": con questo registro il telaio della tastiera coi tasti e coi martelletti viene spinto da un lato, sicché i martelletti percuotono solo una corda di ognuno degli ordini. Questo registro s'incontra in tutti i pianoforti a coda del Civico Museo Bibliografico Musicale.
Verso la fine del secolo XVIII e nel primo quarto del XIX i pianoforti erano spesso provvisti d'un numero notevole di registri, sino a sei. Tra questi registri ve ne sono alcuni - come il fagotto, la campanella, il tamburo - che non avevano una funzione fuori della musica semileggera dell'epoca (pot-pourri, danze, marce, musica illustrativa). Nella musica colta sono usati esclusivamente il "forte ", l'"una corda" e il "pianissimo". Con l'andare degli anni scomparvero quasi tutti questi registri, purtroppo anche il "pianissimo", tranne due: il "forte" e l"'una corda", che si trovano anche in tutti i quattro pianoforti a coda del Civico Museo Bibliografico Musicale.
Ci sono vari mezzi per far azionare i registri. I primi pianoforti a coda, e ancora molti pianoforti rettangolari della seconda metà del secolo XVIII, hanno leve a mano per registrare, come ad esempio il pianoforte rettangolare di Glonner del Civico Museo Bibliografico Musicale. S'intende che con l'azionamento a mano non è possibile cambiare la registrazione senza che almeno una mano sia tolta dalla tastiera. La prossima tappa è l'introduzione di ginocchiere per far azionare i registri. Tali ginocchiere si trovano nel pianoforte rettangolare del Museo Davia Bargellini e nei due anonimi del Civico Museo Bibliografico Musicale. Anche molti pianoforti viennesi sono provvisti di ginocchiere sino al 1820 all'incirca.
In Inghilterra e in Francia i costruttori applicarono subito dei pedali - per lo meno nei pianoforti a coda - per far azionare i registri. I pedali divennero generali all'inizio del secolo XIX fuori di Vienna, un poco più tardi anche in quest'ultima città. I quattro pianoforti a coda del Civico Museo Bibliografico Musicale hanno due pedali: quello sinistro per l"'una corda", quello destro per il "forte ".
La produzione di pianoforti rettangolari continuò sino al 1860 all'incirca, localmente addirittura sino all'inizio del nostro secolo. Per poter far concorrenza ai pianoforti a coda, diventarono sempre più grandi, più rozzi e più pesanti, senza mai raggiungere la qualità sonora del pianoforte a coda. All'inizio i pianoforti rettangolari avevano almeno il vantaggio di non occupare molto spazio, ma questo vantaggio andava a poco a poco sparendo nel secolo XIX. Oggi questo tipo non ha più nessuna importanza nella pratica musicale.
Sopravvisse invece come strumento domestico il pianoforte verticale. In questa sede manca lo spazio per abbozzare la storia anche di questo tipo. Basta accennare al fatto che un pianoforte verticale, praticamente moderno, è conservato nelle Collezioni Comunali d'Arte.
Gli strumenti musicali, sia quelli europei sia quelli di altri continenti, possono essere classificati in vari modi. La classificazione di uso comune - strumenti a percussione, a fiato, ad arco, a pizzico, può servire per la pratica musicale, ma non è molto precisa, perché in tale raggruppamento gli strumenti sono classificati secondo
la maniera in cui viene generato il suono, o piuttosto la vibrazione, il che porta a conseguenze inaspettate. Strumenti a percussione sono non solo i timpani, i
tamburi, i piatti, gli xilofoni, le campane, ma anche il salterio tedesco e il pianoforte, mentre il salterio dell'Europa meridionale - morfologicamente dello stesso
tipo del salterio tedesco - è uno strumento a pizzico. Strumenti a fiato sono non solo i flauti, gli oboi, i clarinetti, i fagotti, i corni, le trombe, i tromboni, le tube e
anche le diverse specie d'organi, ma anche l'anémochorde di Johann Jakob Schnell (Parigi, 1789) e il piano éolien di Isouard (Parigi, 1837), strumenti in cui
l'aria proveniente da un mantice genera la vibrazione delle corde; appartengono inoltre a questo gruppo il mirliton e l'arpa eolia. Strumenti ad arco - o più esattamente
strumenti il cui suono viene generato mediante strofinamento - sono non solo i violini, le viole, i violoncelli, le viole da gamba, il contrabbasso, ma anche la
raganella, il violino di ferro, la glasharmonika e la caccavella. Strumenti a pizzico sono non solo il liuto, il mandolino, la cetera, la chitarra, l'arpa e, come s'è già detto, il salterio dell'Europa meridionale, ma anche lo scacciapensieri.
Non solo strumenti disparati si trovano riuniti nella stessa classe, ma anche strumenti simili vengono separati in classi diverse. In tale maniera i vari strumenti a
tastiera con corde - cembali con corde pizzicate, pianoforti a corde percosse - si trovano raggruppati in categorie diverse.
È quindi estremamente difficile classificare gli strumenti in un sistema soddisfacente sotto tutti gli aspetti. Generalmente si applica il sistema di classificazione
proposto da Victor-Charles Mahillon nel primo volume del catalogo del Museo degli Strumenti del Conservatorio Reale di Musica di Bruxelles (1888) e perfezionato
da Curt Sachs ed Erich von Hornbostel a Berlino (1914). Secondo questo sistema gli strumenti sono classificati come segue:
1. idiofoni: strumenti in cui primariamente un materiale solido con tensione propria è messo in vibrazione (piatti, xilofoni, metallofoni, campane, violini di ferro,
ecc.);
2. aerofoni: strumenti in cui primariamente una corrente d'aria è messa in vibrazione periodica (flauti, oboi, clarinetti, fagotti, corni, trombe, organi ecc.);
3. cordofoni: strumenti in cui primariamente un materiale solido elastico con tensione unidimensionale è messo in vibrazione (liuti, cembali, salteri, pianoforti,
violini, viole ecc.);
4. membranofoni: strumenti in cui primariamente un materiale solido elastico con tensione bidimensionale è messo in vibrazione (timpani, tamburi, mirliton
ecc.). Quest'ultima classe è assente nella collezione da descrivere in questa sede. Da un punto di vista teorico tale classificazione non soddisfa sotto tutti gli aspetti.
Infatti, dopo Sachs-Hornbostel sono stati proposti altri metodi più precisi. Il sistema finora più esatto è quello di Herbert Heyde di Lipsia (1975). Tuttavia, questi
ulteriori sistemi sono assai complicati, e inoltre la classificazione di Sachs-Hornbostel può servire bene per la maggior parte delle collezioni di strumenti appartenenti
a musei pubblici e privati. Per questa ragione la applichiamo anche in questo catalogo.
[John Henry van der Meer, Strumenti musicali europei del Museo civico medievale di Bologna. Con appendici dei fondi strumentali delle Collezioni comunali d'arte, del Museo Davia Bargellini e del Civico museo bibliografico musicale, Bologna, Nuova Alfa 1993]